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Il culto di Zelensky

No ho nessun intento politico nel postare questi articoli sul mio blog. L’ unico intento è mostrare quanto infine la personalità delle persone pesi sulle loro scelte ed azioni ed il più’ delle volte in maniera del tutto o in parte inconsapevole e questo è il vero punto.

ANNA ZAFESOVA  15 SET 2019

Con un genio populista come presidente, l’Ucraina è il posto cruciale dove si deciderà se a vincere sarà Putin o l’Europa. Ecco come sta andando

A Kiev sembra di stare dentro un film. Anzi, dentro una serie televisiva. Si chiama “Servo del popolo”, e racconta di un ucraino comune diventato per caso capo di Stato. Le prime due stagioni, un brillante mix di comicità classica e satira politica, sono state un enorme successo, acquistato perfino da Netflix. La terza è stata trasmessa alla vigilia delle elezioni presidenziali di marzo, un avvincente spot elettorale in tre puntate che vede il suo inventore e protagonista, Vladimir Zelensky, unificare e rilanciare un paese devastato e spaccato. Il 21 aprile Zelensky ha vinto il ballottaggio con un assordante 73 per cento dei voti, un risultato che ha rispecchiato fedelmente la cartina mostrata nella serie, con le uniche regioni a non votare per lui ai due estremi geografici e politici, i nazionalisti di Leopoli e i nostalgici dell’Urss nel Donbass. La quarta stagione ora è in onda tutti i giorni in tutta l’Ucraina, in formato reality show.

Il presidente vuole lanciare una tv internazionale in russo che dirà l’opposto di Russia Today, il megafono del Cremlino

Alcune scene degli ultimi giorni non avrebbero potuto essere più incredibili, nemmeno se scritte dai famigerati 120 sceneggiatori di Zelensky. Come l’apertura della Rada il 29 agosto scorso, con 254 deputati del partito Servo del Popolo che varcavano per la prima volta la soglia del Parlamento, dopo che Zelensky ha sciolto quello precedente nel suo primo discorso da presidente. Una variopinta pattuglia di tecnici, attivisti di Ong, ristoratori, comici, intellettuali e illustri sconosciuti, che hanno stracciato nelle urne oligarchi e gerarchi con ventennale esperienza, come il 29enne fotografo di matrimoni Serghey Shtepa, che ha fatto a pezzi a Zaporozhie Viacheslav Boguslaev, proprietario dell’impianto siderurgico (e di fatto della regione) e membro delle quattro legislature precedenti e della top 20 degli ucraini più ricchi, o il 25enne Oleksiy Movchan, tecnico di un sistema elettronico anticorruzione, che ha mandato a casa il quarto ucraino più ricco, Konstantin Zhevago, a Poltava. Nella sceneggiatura non poteva mancare un tocco di politicamente corretto, e il partito, nato praticamente in campagna elettorale, vanta anche il primo deputato afroucraino, il lottatore Zhan Beleniuk. L’80 per cento della nuova legislatura è composto da debuttanti – al punto che il loro leader li ha rinchiusi per una settimana in una spa nel Carpazi di training intensivo sui basics del parlamentarismo – che hanno subito votato spensierati l’obbligo di frequenza e soprattutto l’abolizione dell’immunità parlamentare, per decenni classico rifugio dei corrotti.

L’ossessione per l’o-ne-stà è uno dei tratti che, insieme alla carriera nello spettacolo, ha fatto guadagnare a Zelensky il titolo di “Grillo ucraino”: “Lo votano le babushke analfabete, quelle che non leggono nemmeno la scheda elettorale, ma guardano la tv”, è l’obiezione sdegnata che si sente in molti salotti dell’intellighenzia. Il 73 per cento alle presidenziali – e il 43 per cento alle politiche – però non può essere composto solo da vecchiette con il foulard in testa. Il presidente gira le regioni ucraine licenziando in diretta governatori e direttori delle dogane (“Scusate se ho esagerato, ma io i ladri proprio non li sopporto”), in siparietti che invadono subito YouTube e Instagram, il suo regno social dove regna incontrastato. Sembrano tratti dal “Servo del popolo”, ma sono veri, e incarnano il sogno dell’uomo comune di fare finalmente piazza pulita, in un paese che occupa il 120simo posto nella classifica della corruzione di Transparency International, che gli oligarchi si sono spartiti per anni, come in una scena della serie dove giocano a un Monopoli che ha la sagoma dell’Ucraina. E’ populismo, né potrebbe essere altrimenti da parte di uno che per metà dei suoi 41 anni ha fatto ridere le platee (la prima parte della sua campagna elettorale era di fatto una tournée del suo collettivo Kvartal-95), ma il programma di Zelensky non ha nulla della decrescita felice, semmai è una rottamazione del sistema ancora in buona parte sovietico: privatizzazione delle terre agricole, massicci investimenti nelle infrastrutture e nelle tecnologie, riforma dei mercati finanziari, liberalizzazione, privatizzazione e misure anticorruzione, spuntando l’intera lista delle condizioni che il Fondo monetario internazionale presentava da anni e che apparivano insormontabili per la resistenza delle varie lobby elettorali. Ora sono nel programma di un governo dove l’età media è di 39 anni, il premier Oleksiy Honcharuk ne ha 35 e il vicepremier per le tecnologie (e capo della campagna elettorale digitale di Zelensky) 28, coetaneo dell’indipendenza ucraina. Un’età che impedisce al nuovo dream-team curriculum sontuosi, ma quasi tutti i neoministri sono buoni tecnici con in tasca un paio di lauree delle migliori università nazionali e di quelle decenti dell’occidente, e una notevole esperienza tra pubblico, privato e terzo settore, ma soprattutto appartengono – per la prima volta in tutta la storia postsovietica – alla generazione cresciuta senza il comunismo.

Non c’è più paura della lingua russa, si parla assieme all’ucraino magari nella stessa intervista in tv. Nessuno ci fa caso

La scena del ritorno in patria di 35 prigionieri ucraini, rilasciati dalle prigioni russe il 7 settembre scorso, avrebbe poi potuto ambire a un toccante finale di stagione. “I nostri sono a casa!”, ha twittato il presidente mentre correva all’aeroporto di Boryspil ad abbracciare, camicia bianca sbottonata sotto la giacca blu, il regista Oleg Sentsov, premio Sakharov del Parlamento europeo, i 24 marinai ucraini sequestrati dai russi nel novembre scorso e altri detenuti di profilo politico. Liberarli era stata una promessa elettorale del presidente, che ha abbandonato ogni remora a trattare direttamente al telefono con Vladimir Putin (e a tagliare fuori dal gioco il tradizionale mediatore con il Cremlino, il “comare di Putin” Vladimir Medvedchuk, capo della lobby filorussa, che nonostante il 13 per cento dei voti del suo partito si è visto negare una carica nella nuova Rada), pagando prezzi che i suoi critici, i sostenitori dell’ex presidente Petro Poroshenko che lo considerano “l’uomo dei russi”, sono ansiosi di scoprire.

“Rischiamo di avere un quinto della popolazione di potenziali collaborazionisti”, è la stima pesante di Valery Kravchenko, direttore del Centre for International Security, esperto abituato a negoziare con colleghi della Nato, convinto che la Russia di Putin non rinuncerà mai alla guerra contro l’Ucraina. Il fatto che a unificare per la prima volta il paese sia stato un ebreo russofono dell’Est ha scandalizzato parte dell’intellighenzia, anche se Kravchenko ammette che lo slogan elettorale di Poroshenko “Esercito, religione, lingua” è quanto di più obsoleto si possa proporre nel 2019. A Kiev si parla russo ovunque, addirittura più di prima, anche grazie ai numerosi profughi del Donbass: la stragrande maggioranza ha riparato dalla guerra non in Russia, ma proprio in quella Kiev che, secondo la propaganda del Cremlino, voleva sterminarli. “L’élite di Kiev è sempre stata bilingue e biculturale, ma nel paese esiste storicamente una minoranza isolazionista che vorrebbe solo chiudersi in se stessa”, spiega Evgheny Kiseliov, influente conduttore televisivo, per anni un kingmaker della politica russa che con l’estinzione della televisione indipendente a Mosca ormai da anni lavora in Ucraina: qui può criticare Poroshenko nonostante la sua trasmissione esca sul canale di proprietà dell’oligarca. La scommessa nazionalista, cinque anni dopo il Maidan e l’annessione della Crimea, non paga più: il sentimento di orgoglio e indipendenza è ormai acquisito, e non richiede più manifestazioni pubbliche. “Tra i 40 bambini all’asilo di mia figlia solo lei e altri due parlano ucraino in famiglia, ma la lingua non è un problema nel XXI secolo”, racconta la giornalista di Hromadke TV Olga Tokariuk: “Molti miei amici russofoni, al contrario, insegnano ai figli l’ucraino, e leggono in ucraino, anche perché ormai l’editoria nella lingua nazionale è più ricca che in russo”. Le interviste alla tv e nei giornali possono alternare russo e ucraino, senza traduzione e sottotitoli, dando per scontato che il pubblico padroneggia più o meno entrambi, in dialoghi spesso surreali in cui ciascuno parla la propria lingua, e i più giovani ci mescolano pure l’inglese: “Usim privit, guys”, salutano le band al festival di musica elettronica all’Art-zavod Platforma, il gigantesco spazio ex industriale diventato la mecca dell’arte alternativa e del street-food. Per la generazione che non ricorda il passato sovietico, parlare l’una o l’altra lingua non è più un atto di fedeltà o tradimento: “Siamo tutti ucraini, indipendentemente dalla lingua, dall’etnia e dalla fede”, è stato il messaggio lanciato sul Maidan da Zelensky (ovviamente in ucraino) il giorno dell’Indipendenza.

Da Kiev la Russia appare lontana, e mentre i media russi parlano in continuazione di Ucraina (ovviamente male), gli ucraini se ne interessano poco, considerandola una sorta di Mordor popolato da orchi da lasciare nel passato. Il rapporto con la storia è forse una delle differenze cruciali tra i due paesi ex fratelli: l’Ucraina trae dal suo passato tragico – dai mongoli ai polacchi, dalla carestia imposta da Stalin all’eccidio nazista degli ebrei a Babij Jar – una voglia di futuro che lo lasci alle spalle, la Russia è ancora nel pieno della sindrome posttraumatica della fine dell’Urss. Ma da lingua da dimenticare il russo potrebbe diventare, anzi, un’arma letale. Nell’entourage del presidente sta maturando l’idea di lanciare una tv in russo che trasmetta all’estero, e non c’è dubbio che in mano a professionisti dello spettacolo come quelli di Zelensky potrebbe diventare un antidoto alla propaganda putiniana di Russia Today (e un sasso pesante nell’orto del vicino bielorusso, Aleksandr Lukashenko). Il popolarissimo scrittore Andrey Kurkov – un russo etnico che scrive nella sua madrelingua – vuole fondare a Kiev un Istituto di lingua russa, ispirato dalle prime parole pronunciate (in russo) da Zelensky dopo la vittoria: “Mi rivolgo a tutti voi, ex sovietici: tutto è possibile”. Un messaggio ai sudditi degli autoritarismi postsovietici, che in bocca al leader di un paese giunto ormai al sesto presidente assume una potenza dirompente, e toglie al Cremlino il monopolio dell’identità russa, l’equazione tra “russità” e putinismo che ha alimentato 10 anni di imperialismo moscovita: si può essere russi, parlare russo, e pensare da europei.

Zelensky ha trattato direttamente con Putin la liberazione dei prigionieri di guerra, non si sa a quale prezzo

L’Europa, e la Nato, restano il sogno e l’obiettivo strategico. La bandiera blu con le stellette sventola ovunque, e a pochi passi dal Maidan si incontra un’aiuola che celebra i 70 anni dell’Alleanza atlantica. Ma soprattutto l’Europa è nelle teste, come una sorta di bussola: “Se faccio così non mi comporto da europeo”, è una frase ricorrente che può riguardare i comportamenti più vari (allungo mazzette, parcheggio in seconda fila, non faccio passare i pedoni), e chi ha il coraggio di dirgli che in Europa succede questo e peggio, e che molti parchi europei sono meno puliti di quelli magnifici di Kiev, e i bambini meno educati (le mamme ucraine rimproverano, a voce bassa ma severa, chi alza troppo la voce). La città che ha fatto da set al “Servo del popolo” è un mix eterogeneo di monasteri bizantini, barocco settecentesco, palazzi liberty, ingombranti monumenti staliniani e altrettanto sgraziati grattacieli nuovi di zecca, tra vialoni a otto corsie e cortiletti immersi nel verde che sembrano spuntati da una provincia gogoliana, sparsi su colline vertiginose attraversate dall’immenso Dniepr che crea spiagge e porticcioli in mezzo alla città; ha già il passo di una grande capitale europea, e nulla meglio del panorama di Kiev dalla chiesa di Sant’Andrea, accanto alla casa natale di Mikhail Bulgakov, permette di toccare con mano quello che tutti sanno anche a Mosca: senza l’Ucraina la Russia non sarà mai più un impero, ma soltanto un grande paese asiatico.

La memoria dei Maidan, e dei suoi caduti, è ancora impressa a fuoco nella pelle della città. “Per quattro anni non ho più potuto metterci piede”, confessa la pittrice e volontaria Elena Volynskaya, che invece delle luci, le fontane e le bancarelle per i turisti vede nella piazza centrale ancora i morti e il sangue. La guerra nel Donbass sembra non esistere tra le verande dei ristoranti dove, avvolti nell’onnipresente profumo del caffè appena macinato, si discute di limonate artigianali e ostriche dal primo allevamento nazionale, a Odessa. Un po’ come in Israele, dove il lungomare di Tel Aviv sembra esistere in una dimensione parallela, e come in Israele la guerra è sempre a portata di mano: sui portatovaglioli di molti caffè sono attaccate le locandine di varie charity che aiutano i reduci del Donbass, ma anche gli animali abbandonati o le donne vittime di violenze domestiche, in un boom di attivismo nato dopo il Maidan e che ha aiutato il paese a risollevarsi e trovare un’identità. Le pubblicità sociali sono ovunque, il volontariato è diffusissimo e le star dello spettacolo girano clip contro il bullismo e pubblicizzano corsi dove imparare a superare il sessismo. Studiare per diventare Europa è anche questo, e una delle prime mosse di Zelensky è stata quella di abolire la sfilata militare per il giorno dell’Indipendenza – “costa troppo, meglio dare i soldi ai nostri soldati” – e sostituirla con un corteo di esponenti della società civile, con i veterani mutilati del Donbass in prima fila.

Poroshenko fu votato nel 2014 per riformare il paese e portarlo verso l’Europa, ma Putin costrinse il presidente-magnate del cioccolato a indossare la mimetica, in un ruolo che avrebbe distrutto chiunque. La parola chiave di Zelensky è “pace”, che non significa resa – la restituzione della Crimea annessa e il ritorno del Donbass sono condizioni sine qua non, anche perché qualunque deviazione farebbe scoppiare dieci Maidan. Il suo primo viaggio all’estero è stato da Macron, il leader internazionale che l’ha tenuto a battesimo, e da Merkel, per rilanciare il “formato Normandia” sui protocolli di Minsk, nei quali vorrebbe cooptare anche Trump. Kravchenko è originario di Donetsk e ammette che le prime mosse di Zelensky sul terreno sono state azzeccate: non si è limitato alla photo-opportunity in trincea con addosso il giubbotto anti-proiettile, ottenendo il primo cessate-il-fuoco relativamente solido dopo mesi. Riuscire a mettere la guerra in stand-by – è evidente che la soluzione definitiva arriverà soltanto con un regime change a Mosca – significa potersi dedicare al rilancio del paese più povero d’Europa.

Se l’Ucraina non torna nella sfera di Mosca, la Russia non potrà mai più essere un impero ma soltanto uno stato asiatico

Una sfida che ha già una road-map. “La serie televisiva di Zelensky, lanciata nel 2015, è stata pensata come un sogno su quello che avrebbe potuto essere. Il popolo è più intelligente di quanto ce lo immaginiamo”, spiega Kiseliov, aggiungendo che la furia di Poroshenko contro la satira del comico non ha fatto che portargli voti. Non è soltanto un fenomeno popolare, però, e molti intellettuali di spicco esultano per la nuova era. Paulina Lavrova, raffinata proprietaria dell’editrice Laurus – un’altra russa scappata da Pietroburgo a Kiev, “ma io l’ho fatto per amore”, ride – è felice per la fine “dell’etnofeudalismo di Poroshenko”, anche se si pone tutti gli interrogativi degli scettici su Zelensky: “E’ un uomo estremamente riservato, in una città come Kiev dove tutti si conoscono frequenta soltanto la sua cerchia. Si sa che è molto leale verso i suoi, ma non sopporta le pressioni, se vogliono costringerlo a prendere una decisione fa il contrario”. L’altro rischio eterno del populismo è l’accentramento di potere, ed è già evidente, anche perché Zelensky ha accumulato un capitale politico senza precedenti: il plebiscito alle presidenziali, 254 deputati (su 450, ma 27 seggi della Crimea e del Donbass occupato sono vacanti) nella Rada, un governo dal quale sono state escluse alcune figure autorevoli ma troppo indipendenti, un suo uomo alla Procuratura generale e un amico d’infanzia e direttore del suo teatro ai servizi segreti. Mikhail Minakov, responsabile dell’Ucraina al Kennan Institute di Washington e massimo esperto internazionale del suo paese, nota con preoccupazione che alla riunione congiunta dei vertici della Rada, del governo e della giustizia il presidente “impartiva ordini, come un capitano alla sua ciurma”, senza peraltro incontrare resistenza, nonostante la Costituzione preveda un sistema parlamentare-presidenziale. Boris Davidenko, analista della piattaforma VoxUkraine.org (il cui fondatore Timofiy Milovanov è diventato ora ministro dell’Economia), è preoccupato dall’approccio della squadra presidenziale verso i media: “Ignorano i giornalisti, dicono che parlano direttamente con il popolo e non hanno bisogno di mediatori, ma non siamo soltanto delle ricetrasmittenti, noi siamo i watchdog della democrazia”. Un leader che sbanca le elezioni come Grillo, rottama come Renzi e comanda come Salvini distruggerebbe quella che è l’essenza politica dell’Ucraina, un multilateralismo quasi esasperato, che l’ha tutelata contro tentazioni autoritarie alla russa ma l’ha anche indebolita in un susseguirsi di faide e clan dove il legame informale spesso conta molto più della legge. Zelensky ha però dimostrato anche di essere capace non solo di rottamazione, ritirando rapidamente l’agghiacciante proposta di interdire gli uffici pubblici a chiunque avesse avuto cariche prima della sua elezione, e alleandosi con il potente e controverso ministro dell’Interno Arsen Avakov, che ha conservato il suo posto (ma potrebbe perdere la Guardia nazionale, che Zelensky vuole comandare personalmente, anche per mettere sotto controllo le frange ultranazionaliste che coinvolge).

Osservatori ben informati dicono che negli uffici della presidenza regna ormai un culto della personalità di “Ze”, considerato dai suoi un genio. Il background del presidente non aiuta l’umiltà: oltre ad avere come mestiere quello di incantare il pubblico, qualità necessaria ma anche pericolosissima per un politico, è anche un imprenditore di successo. Il suo teatro Kvartal-95 è un vero impero, con le facce dei suoi attori affisse ovunque per Kiev, tra pubblicità e locandine: produce spettacoli live, film, serie, e dà lavoro a 10 mila persone. E’ una componente essenziale del successo del personaggio Ze, un self-made man, uno dei nostri ragazzi che ce l’ha fatta, dai teatri studenteschi al palco principale della nazione, ma esempi anche recenti mostrano che un businessman abituato a una catena di comando verticale fa fatica a funzionare negli schemi multidimensionali della politica. Da presidente Zelensky ha assunto toni più sobri, e interpreta il presidente vero senza alcuna concessione alla comicità del suo personaggio televisivo, forse per evitare di cadere nel ridicolo di un capo di stato che fino a sei mesi fa si vedeva a lanciare tortini vestito da donna nei suoi spettacoli comici. Anche le sue proposte più populiste, come l’abbassamento delle tariffe sul gas, eterno dolore ucraino, sono state accantonate. Resta la battaglia con gli oligarchi che, rivela la giornalista d’inchiesta Olga Vassilevskaya-Smaglyuk, appena eletta deputato con il partito di Zelensky, stanno già cercando di comprare i nuovi “servi del popolo”, molti dei quali non hanno mai visto più di 500 euro in contanti in vita loro. E resta la sfida delle riforme e dell’economia, in quello che ufficialmente è il paese più grande ma anche il più povero d’Europa, anche se Kiseliov dice che “in buona parte i numeri sono una finzione” e Davydenko aggiunge che Kiev cresce a un tasso del 6 per cento, due punti in più della media nazionale (e si vede dal numero dei cantieri e dei locali nuovi). La guerra con la Russia ha prodotto una crisi devastante, ma cinque anni dopo si è scoperto che Putin ha voluto il male e ha compiuto involontariamente il bene: distruggendo l’industria mineraria del Donbass ha anche polverizzato l’influenza politica della regione più filorussa dell’Ucraina, il cui ruolo è stato sostituito nell’economia da un’agricoltura in grande ascesa, con cospicue esportazioni internazionali. E i 9 milioni di ucraini che lavorano, più o meno fissi, in Europa, non solo portano con le loro rimesse fino al 4 per cento del Pil, ma sono una risorsa umana cruciale nella scelta filo occidentale. Per ora, l’avventura mediatico-politica di Zelensky è il più grande spettacolo del mondo, in una sorta di “populismo buono” che rappresenta un avvincente quanto inquietante spiraglio dell’imminente futuro in cui le sceneggiature della politica si scriveranno direttamente su Netflix, e si tratterà di imparare l’arte di scriverle con un lieto fine. Ma quello ucraino è il laboratorio più all’avanguardia dove si sta cercando la ricetta per superare la sindrome sovietica, una scommessa che potrebbe cambiare il destino anche della Russia, e dell’Europa.

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