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Emozioni e….. neonati!

Colwyn Trevarthen

Il capitolo primo risale al 1980, ma esso contiene in nuce tutte le tematiche che Traverthen svilupperà successivamente. Egli parte dalla neotenia, nella quale vede la matrice della socialità cooperativa:

“Il cervello del feto umano si è evoluto dal cervello fetale dei primati fino a dare luogo a una nuova forma di intelligenza, in cui la giovinezza presenta un significato di gran lunga maggiore, e maggiori potenzialità adattive, di quanto si riscontri in alcuna altra specie.

La perdita della forma adulta, o il rallentamento dell’evoluzione adulta, con l’elaborazione di più ampie possibilità per i giovani, più plastici, è stata una tattica evolutiva che ha consentito di dare origine a molti e importanti nuovi gruppi di animali. Si tratta di un fenomeno noto come neotenia (De Beer, 1940). Alcuni pensano che gli esseri umani si siano evoluti neotenicamente a partire da esemplari giovani dei nostri scimmieschi antenati, estendendo la curiosità giovanile e la giocosa adattabilità in modo da far loro occupare gran parte dell’arco della vita. E possibile che l’intelligenza cooperativa, la più importante ricchezza degli uomini, si sia evoluta dalla tendenza delle giovani scimmie di condividere le proprie abilità con il gruppo dei pari e con gli anziani.” Su questa base, i comportamenti comunicativi dei neonati assumono un significato sociale, di cui la Psicologia ha stentato a capire l’importanza: “Per un lungo periodo, le comunicazioni sociali dei neonati sono state trattate come risposte simili a riflessi, generate in risposta a insiemi di segnali provenienti dagli altri. Si pensava che all’inizio della vita questi segnali fossero pochi e fossero successivamente incrementati da nuove combinazioni apprese. Questa credenza ha dato luogo a tentativi per scoprire gli stimoli più efficaci o più semplici per elicitare determinate risposte, come piangere, sorridere, ridere, o “vocalizzare”. Allo stesso tempo, sono emersi molti indizi secondo i quali gli stimoli sociali rappresentano l’aspetto più importante del mondo reale del bambino…

In alcuni studi, ad esempio in quelli di Piaget, sono state utilizzate ricompense di tipo sociale da parte dell’osservatore (con la voce, il toccamento o il sorriso) e risposte sociali del neonato (sorrisi, risate, gorgoglii di piacere, pianto) per ottenere notizie su qualche altra funzione percettiva o cognitiva ma, di regola, la funzione comunicativa stessa non è stata presa in ulteriore considerazione.

Ciò nonostante, è chiaro da almeno cent’anni che i neonati producono molti segnali sociali diversi che assomigliano alle espressioni con cui gli adulti comunicano l’un l’altro. Gradualmente, si è incominciato a prendere nella dovuta considerazione il complesso significato psicologico di atti quali guardare negli occhi un’altra persona, evitare lo sguardo o sorridere da parte di neonati di poche settimane. E al tempo stesso si è sorvolato su molti altri atti di comunicazione, ugualmente comuni.” Il carattere eminentemente sociale dei comportamenti comunicativi neonatali è stato documentato in maniera indubitabile: “Nei film realizzati nel mio laboratorio con bambini a partire dalle quattro settimane, e per tutto il primo anno di vita, abbiamo ottenuto prove dell’esistenza di molte forme di espressione che includono, oltre alle emozioni solitamente accettate della gioia, della tristezza, della rabbia, della paura, della sorpresa e così via, anche gesti di riconoscimento e di indicazione (per esempio, saluti agitando le mani, indicazioni puntando il dito), e movimenti di labbra e di lingua che assomigliano a elementi linguistici (Trevarthen, 1979a). Associata a quest’ultima attività, che noi chiamiamo “protodiscorsiva” (prespeech), ma che non la accompagna necessariamente, vi è una vocalizzazione tubante del tutto diversa dal pianto di sofferenza o dalle grida di giubilo. Verso i sei mesi essa si sviluppa nella lallazione.

Di importanza capitale è il fatto che questa complessa sequenza di espressioni, che rappresentano quasi l’intera estensione della comunicazione umana, non viene prodotta in maniera destrutturata e senza collegamenti con gli atti delle altre persone che vi assistono e vi rispondono. Le azioni comunicative dei bambini piccoli sono spesso frammentarie, scollegate e indistinte, e possono risultare, come tutti gli atti dei bambini, del tutto disgiunte dagli stimoli esterni, con spavalda indifferenza. Ma di nuovo, come tutti gli atti spontanei dei bambini (quali l’osservare e il cercare di afferrare), le azioni comunicative sono in grado, sin dall’inizio, di accomodarsi rispetto alle circostanze cui sono intrinsecamente adattate. I neonati sorridono, gesticolano, fanno smorfie, borbottano e vocalizzano indirizzandosi ad altre persone, e sovente accordano e graduano le proprie espressioni per adattarsi quanto più possibile alle espressioni dei loro partner. Abbiamo ormai compreso che le interruzioni degli atti del partner, causate da disattenzione, da ritiro emozionale, o da interferenze esterne sono in grado di dare luogo a forti indici di disagio e di ritiro in se stesso in un bimbo di due mesi che sino a poco prima era stato in piena comunicazione. Ciò prova sia che i bimbi sono in grado di coinvolgersi profondamente nella complessità e nella varietà di un normale baby-talk, sia che dipendono emotivamente dai suoi sviluppi.

Le emozioni umane non causano l’espressione, e quindi la comunicazione, ma, al contrario, riflettono il successo o il fallimento della comunicazione e vengono espresse per mantenere la comunicazione medesima.”

Il “tropismo” verso l’umano è l’essenza dei comportamenti comunicativi neonatali: 

“Tra tutte le attività di esplorazione, ricche di aspettative, condotte dal cervello infantile, di gran lunga le più potenti sono quelle dirette a una vita sociale carica di emozioni. Prima di iniziare a esplorare gli oggetti con le mani e a camminare nel mondo, un bambino comunica: è attento, ricerca e modula la comunicazione con altri esseri umani. Un bimbo di due mesi è una personalità complessa, capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”, trattandole come una categoria di importanza primaria per il proprio sviluppo (Trevarthen, 1974b). Dopo aver stabilito nel corso dei primi tre mesi una chiara preferenza per le attenzioni e i significati umani, e dopo aver consolidato un abbozzo di interazione conversazionale, vi è un periodo di parecchi mesi in cui la curiosità rispetto a ciò che può essere visto e udito, e poi manipolato per essere visto, percepito e udito meglio, entra in competizione con l’interesse per la vita sociale.”

“A circa quaranta settimane dalla nascita, quando il bambino ha sviluppato e appreso una relazione speciale con la madre e un gruppo di “amici intimi”, ed è diventato dipendente dai loro interessi e dai loro modi di presentargli il mondo, il comportamento interpersonale si trasforma in modo alquanto improvviso. Invece di subordinare la comunicazione alla guida immediata degli organi per raccogliere esperienze e regolare i movimenti corporei, egli cerca di condividere, di cooperare con gli altri, di accettare apertamente le loro idee. Per la prima volta vengono realizzati, in maniera del tutto autonoma, atti di significazione, di istruzione, di dichiarazione, di saluto, di riconoscimento (Trevarthen, Hubley, 1978). Ii bambino inizia a collaborare con i suoi compagni in un mondo di interessi condivisi. Un piccolo di un anno non è capace di parlare ma è in grado di mettere esplicitamente in comune con i compagni le proprie idee sui mondo. Ogni azione è una dimostrazione o un’esposizione potenziale e per questo motivo quello che il partner fa, o mostra, o offre, diventa immediatamente interessante.”

Le conclusioni cui giunge Trevarthen sono le seguenti: “Umano nella sua essenza, il cervello può iniziare il processo della comunicazione umana prima di avere appreso qualsivoglia concetto relativo agli oggetti o ai modi per spostarsi nel mondo, ed è in grado di avviare il proprio coinvolgimento nell’assimilazione e nell’estensione dell’uso culturale dell’esperienza prima di potere parlare di essa. Il cervello umano rappresenta dunque un organo culturale che stimola in maniera intuitiva l’ottenimento di educazione da parte di altri esseri umani che meglio conoscono i dettagli del mondo. Il trasferimento di conoscenze avviene in risposta a una richiesta del bambino

“Il duplice valore della natura infantile è dunque quello di ricordare agli psicologi che noi siamo innatamente umani nel senso più ampio possibile del termine e, cosa ancor più importante, invitare i genitori, gli insegnanti e tutti i compagni dei bambini a unirsi al compito di trasmettere loro tutte le conquiste dell’intelligenza umana. Capace di trattenere in maniera meravigliosa i dettagli dell’esperienza, il cervello umano è al tempo stesso intrinsecamente regolato per svilupparsi come membro di una comunità di cervelli che governano le azioni cooperative dei loro corpi.” 

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