“Mentale” e “Fisico”

Non Esistono: Esistono le Persone. Nello specifico gli Atleti.

Nonostante tanto e tutto si continua a parlare di niente. Nel linguaggio tecnico-sportivo si fa spesso riferimento a “problemi mentali” o “problemi fisico/atletici” per spiegare le prestazioni al di sotto delle aspettative. È un’abitudine consolidata, ma pericolosamente generica. Queste espressioni, nella loro apparente funzionalità, possono diventare un alibi comunicativo, un modo per evitare un’analisi più profonda e onesta del fenomeno prestativo.

La persona, non il compartimento

Separare mente e corpo fisico è un errore concettuale, figlio di una tradizione filosofica che la scienza della prestazione e non solo ha ormai ampiamente superato o meglio dovrebbe. Nessun atleta vive “pensando da una parte” e “muovendosi dall’altra”. Ogni azione sportiva nasce dall’interazione continua tra attivazione fisica e attivazione mentale.

Un pensiero negativo, una preoccupazione, un umore deflesso – anche lievi – possono provocare alterazioni misurabili nel funzionamento motorio. Ad esempio, si registra spesso una minore fluidità dei gesti, un rallentamento nei tempi di reazione, una postura più contratta. Questo non è suggestione, ma neurofisiologia.

Un esempio concreto: quando la mente rallenta il corpo

Immaginiamo , facendo una cosa semplice, un atleta che sta vivendo un periodo di tono dell’umore un po’ basso, magari non di livello clinico clinico, ma sufficiente a farlo sentire scarico, svogliato, poco entusiasta. Questo stato magari determina un aumento dell’attività dell’amigdala, il centro cerebrale che gestisce emozioni come la paura e l’ansia. L’amigdala, iperattiva, inibisce parzialmente la corteccia prefrontale, l’area deputata alla concentrazione, al giudizio e al controllo motorio fine.

Nel frattempo ed in conseguenza , l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene entra in azione, stimolando il rilascio di cortisolo. Se questo stato perdura, il cortisolo resta cronicamente elevato, generando effetti tangibili: riduzione del tono muscolare, indebolimento della soglia attentiva, minor reattività allo stimolo. L’atleta “sente (forse) di non avere il corpo a disposizione”, ma la causa non è muscolare: è integrata, è mentale e fisica insieme.

Viceversa, anche un danno fisico o una stanchezza sistemica possono alterare profondamente la mente. Un dolore costante stimola ad esempio la produzione di citochine infiammatorie che attraversano la barriera emato-encefalica e modificano l’attività cerebrale: nasce un quadro di “sickness behavior”, che comprende apatia, rallentamento cognitivo, pensieri negativi e ridotta iniziativa. Oppure pensiamo alla insicurezza che potrebbe generare l’ essere consapevoli di non essere poi così preparati dal punto di vista fisico innescando quindi meccanismi come quelli sopra descritti. Oppure pensiamo al rapporto di in atleta con un infortunio in grado di procastinarne gli effetti anche ben oltre una completa guarigione.

Percezione della fatica: il paradigma perfetto

La percezione della fatica è un esempio eloquente e facilmente rilevabile, di questa interconnessione. Non esiste una relazione lineare tra dato fisiologico e sensazione di fatica. Due atleti con lo stesso livello di lattato, frequenza cardiaca e consumo di ossigeno possono riportare percezioni completamente diverse dello sforzo.

Questo perché la fatica è filtrata dalla memoria emotiva, dal significato attribuito allo sforzo, dal clima motivazionale, dalla qualità del dialogo interno. Non basta guardare un cronometro o una soglia anaerobica per capire “come sta” un atleta: serve leggere l’intero contesto in cui sta vivendo.

Dati, osservazione e confronto: la sintesi multidimensionale

Quando parliamo di prestazione, dobbiamo smettere di cercare spiegazioni singole. I dati sono fondamentali, ma non bastano. Le osservazioni tecniche sono preziose, ma devono essere messe a confronto con la percezione soggettiva dell’atleta. È solo nell’incrocio tra ciò che si vede, ciò che si misura e ciò che si racconta che emerge un quadro utile per decidere come intervenire.

Fare sintesi tra dati oggettivi, lettura comportamentale e confronto diretto con l’atleta è l’unico modo onesto di lavorare. Ogni semplificazione è una scorciatoia che si paga, prima o poi, in termini di risultati e relazioni. Qualcuno può darmi torto?

Il grande assente: l’atleta (questa non è una battaglia per i “diritti umani” ma per l’ efficienza prestativa)

Troppo spesso si parla dell’atleta, ma non con l’atleta. In qualche caso viene scambiato per sindacalismo, questo è preoccupante. Certo dipende dagli argomenti da trattare e da come trattarli. Si tracciano profili, si stilano analisi, si commentano performance senza coinvolgere la fonte primaria: chi compete.

Eppure è l’atleta che sente o dovrebbe sentire, che prova, che regola il proprio comportamento in base a sensazioni e rappresentazioni interne. Tralasciare il suo punto di vista equivale a lavorare in una stanza buia. Lavorare sempre al buio abituerà l’ atleta al stare al buio rispetto a se stesso: mera esecuzione di gesti richiesti.

L’atleta non va soltanto “informato” delle conclusioni del team tecnico e prima deve fornire informazioni specifiche per arrivare a quelle conclusioni. Va coinvolto, ascoltato, stimolato a riflettere sulla performance . È solo così che si costruisce quella consapevolezza che può trasformare un calo prestativo in un’occasione di sviluppo.

Il tempo dei cyborg è ancora lontano

L’illusione di poter ridurre tutto a schemi e numeri è ancora molto presente, ma rischia di farci perdere di vista la complessità umana. Nessun atleta è una macchina. Alleniamo persone, con storie, paure, potenzialità e limiti. La loro mente e il loro corpo formano un sistema unico, inscindibile.

Restituire centralità alla persona, integrare competenze, leggere i dati senza dogmi e – soprattutto – coltivare una relazione efficace con chi compete sono le uniche strade per affrontare davvero la complessità della prestazione sportiva.

Non esistono scorciatoie. Ma esistono strade più efficaci.


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