ovvero: come svuotare la mente senza perdere il cervello per strada

C’è un grande equivoco, ormai globale, sulla pace interiore.
L’idea che, per “trovare la calma”, serva trasformarsi in un monaco zen con abbonamento a un’app di meditazione, un tappetino da yoga in juta, e una dispensa piena di tisane che sanno di cartone umido.
Ecco, no.
La verità è che la mente si svuota non quando la costringi a stare zitta, ma quando smetti di cercare di sistemarla.
Siamo così abituati a voler risolvere tutto, capire tutto, migliorare tutto, che anche la serenità è diventata una prestazione da raggiungere. Una app. da aggiungere da qualche parte. Insieme a wallet.
E allora via con i tutorial: “3 tecniche per essere presenti”, “10 modi per spegnere la mente”, “il potere del qui e ora in 6 minuti”.
Ma nessuno ti dice la verità scomoda: è normalissimo non riuscirci.
I maestri orientali, quelli veri, quelli che non hanno Instagram, lo sanno da sempre.
La filosofia orientale – quella che arriva dal Buddhismo, dal Taoismo, dallo Zen – non promette di renderti felice.
Promette, semmai, di renderti consapevole del fatto che la felicità come la immagini è solo un’altra fantasia in cui ti sei incastrato.
Il Buddhismo, ad esempio, parte da un assunto semplice e brutale:
“Tutto è sofferenza.”
Che non è pessimismo, ma realismo.
La sofferenza nasce dall’attaccamento, dal desiderio, dalla pretesa che le cose siano diverse da come sono.
E quindi?
E quindi lascia andare.
Guarda le cose mentre passano. Non aggrapparti. Non combattere.
Non tutto va sistemato. Alcune cose vanno lasciate scorrere. Anche perché……
Poi c’è il Taoismo. Il Tao è il flusso, il corso delle cose, l’acqua che aggira gli ostacoli invece di spaccarli.
Lao Tzu, il suo fondatore, probabilmente se vivesse oggi guarderebbe la nostra ossessione per l’efficienza, per il “diventa la versione migliore di te stesso”, e si metterebbe a ridere piano, con gli occhi chiusi.
Perché il Tao non ti chiede di migliorarti.
Ti chiede solo di smetterla di remare contro il fiume.
Lasciati portare. Galleggia.
Non è arrendersi. È smettere di sprecare le forze nella cosa sbagliata.
E poi c’è lo Zen, il più spietato di tutti.
Lo Zen ti guarda, mentre tenti di capire la tua vita, mentre ti complichi l’esistenza con pensieri su pensieri, e ti dice:
“Siediti. Respira. Fai una sola cosa. Poi un’altra. Basta.”
Lo Zen è brutalmente semplice. E per questo difficilissimo.
Quando lavi i piatti, lava i piatti.
Quando cammini, cammina.
Quando ascolti, ascolta.
E se non ci riesci, pazienza.
Accettare il tuo casino interiore è già un primo passo verso la quiete.
Tutta questa saggezza, però, viene spesso travisata.
Trasformata in citazioni con font eleganti sopra immagini di tramonti, mentre la persona che le posta ha appena urlato contro la fotocopiatrice e poi ha fatto finta di sorridere davanti al team.
Ecco, la vera pratica non è quella.
La vera pratica è ricordarti che puoi fare silenzio anche in mezzo al rumore.
Che puoi essere presente anche mentre la vita ti tira una ciabatta in faccia.
Non serve partire per l’India. Non serve staccare tutto e ritirarsi in un eremo digitale.
Serve, magari, fermarsi due minuti. Guardare fuori. Respirare. Non aggiungere pensieri dove non servono.
A volte la pace è lì. Nascosta dietro un respiro profondo.
Un gesto lento.
Un caffè preparato senza fretta.
Un passo che non cerca una direzione, ma gode del fatto di essere lì.
La chiave non è spegnere la mente.
È non darle sempre retta.
E quando ti dice che devi fare qualcosa, rispondile come si fa con un conoscente insistente:
“Anche no, oggi passo.”
E allora sì, puoi mettere i sandali.
Non perché sei illuminato.
Ma perché ti sei concesso il lusso di camminare più piano, senza fingere di sapere dove stai andando.