ovvero: come camminare sull’orlo del senso senza buttarsi (ma anche senza fingere che ci sia un ponte)
Ci sono momenti in cui tutto si ferma.
La mente smette di correre, il corpo si siede da solo, e qualcosa dentro sussurra – o forse urla, ma in silenzio:
“A che serve tutto questo?”
Non è depressione.
Non è una crisi passeggera.
È quella cosa che arriva quando il rumore finisce, quando hai smesso di fingere, quando nemmeno le notifiche riescono più a coprire il vuoto.
E lì, nel mezzo, non c’è né dramma né poesia. Solo un grande “boh” esistenziale.
Benvenuto nel nulla.
È più comune di quanto si pensi.
Solo che pochi lo dicono ad alta voce.
Perché non sta bene. Non è Instagrammabile. Non fa vendere corsi.
E invece il nulla è parte del pacchetto.
Fa parte del vivere.
E ignorarlo non lo elimina. Lo amplifica.
Nietzsche lo aveva capito bene.
Era uno che guardava in faccia l’abisso senza fare una piega.
Anzi, diceva che l’abisso, se lo fissi troppo a lungo, inizia a fissarti indietro.
Eppure non si tirava indietro. Anzi. Ci entrava dentro con la lanterna.
Non per uscirne illuminato, ma per dimostrare che ci si può camminare in mezzo senza diventare folli.
Per lui, il nulla non era un errore. Era una condizione naturale.
E l’unico modo per affrontarlo era crearci qualcosa sopra.
Un’idea. Uno stile. Un gesto. Una risata.
Magari anche solo l’atto eroico di alzarsi dal letto e prepararsi un caffè.
Un atto gratuito, privo di senso assoluto, ma carico di intenzione.
E già solo quello è rivoluzione.
Jünger era più militare. Letteralmente.
Lui affrontava il vuoto con disciplina. Con ordine interiore.
Per lui, sopravvivere al nulla significava diventare soldati della propria mente.
Allenarsi al dolore, all’assenza, alla solitudine.
Non per diventare invincibili, ma per essere pronti.
A tutto. Anche al niente.
Poi arriva Camus, e butta giù tutto il teatro.
Dice: la vita è assurda. Punto.
Non perché manchi di senso. Ma perché ne ha troppi, e nessuno regge davvero.
Eppure, dice, bisogna vivere come se ci fosse un senso.
Non per illudersi, ma per resistere con stile.
E allora prende il mito di Sisifo – quello condannato a spingere un masso su per la montagna per l’eternità – e dice:
“Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Ma felice di cosa, esattamente?
Felice nonostante.
Felice dentro il gesto, non nel risultato.
Felice perché sta facendo qualcosa, anche se non serve a niente.
E questo, se ci pensi, è tutto ciò che facciamo ogni giorno.

Infine Hesse, il più gentile di tutti.
Ti prende per mano e ti dice: sì, lo so, sei perso. Ma guarda che perdersi è parte del viaggio.
Che il vuoto che senti non è una malattia. È una soglia.
E attraversarla è l’unico modo per crescere.
Non migliorare. Non guarire. Crescere.
Il nulla non si combatte.
Non si risolve.
Si guarda. Si respira. Si attraversa.
Puoi fingere di non sentirlo. Riempirti di cose, impegni, obiettivi, piani.
Oppure puoi sederti lì, nel mezzo, e dire:
“Ok, oggi non ho senso. Va bene così. Passami il tè.”
E già quello è un atto di coraggio.
In un mondo che ti vuole sempre motivato, brillante, “in controllo della tua vita”, dire “non so perché lo sto facendo, ma lo faccio lo stesso” è rivoluzionario.
Il coraggio non è affrontare i draghi.
È alzarsi la mattina quando non hai motivi chiari per farlo.
È fare la spesa anche se il futuro sembra uno sketch mal riuscito.
È ascoltare una canzone e non sapere se ti piace o ti fa piangere.
È continuare a vivere anche senza una narrazione epica.
Perché forse la verità è che non serve un grande senso per vivere bene.
Basta uno sguardo aperto.
Una mente pulita.
Una risata piccola.
Un po’ di ironia.
E la consapevolezza che, sì, tutto è assurdo. Ma non tutto è inutile.
Il nulla c’è.
Ma anche tu ci sei.
E se riesci a starci dentro senza cercare per forza una via di fuga, forse sei più forte di quanto pensavi.