by R.B.
Il mobbing è la perfetta incarnazione della tossicità nel mondo del lavoro. Non è un semplice conflitto tra colleghi o una gestione autoritaria: è una forma di violenza psicologica, calcolata e persistente, che punta a distruggere chi si trova nel mirino. Un avvelenamento progressivo che rende l’ambiente di lavoro una gabbia, un incubo quotidiano.
Non illudiamoci che il mobbing sia un episodio isolato o uno scivolone occasionale. È un sistema. Può essere verticale, quando un superiore usa il suo potere per schiacciare un dipendente: critiche continue, compiti impossibili, delegittimazione pubblica. Ma non sottovalutiamo il mobbing orizzontale, dove l’invidia e la competizione tra colleghi si trasformano in pettegolezzi velenosi, sabotaggi e ostracismo. Poi c’è il mobbing dal basso, quello meno visibile ma altrettanto letale, in cui un gruppo di sottoposti si coalizza per indebolire un superiore, magari percepito come debole o fuori posto.
Chi sono i carnefici? Non immaginiamoli come mostri dall’aspetto inquietante. Spesso sono persone apparentemente comuni, mosse da insicurezza, paura o malvagità calcolata. Il capo che mobbizza ha spesso paura di perdere il controllo o di essere messo in ombra dalla vittima. Il collega mobbizzatore è animato dall’invidia o dalla necessità di eliminare un potenziale rivale. E poi ci sono i “gregari del mobbing”: quelli che non prendono mai l’iniziativa, ma si uniscono al branco per paura di diventare il prossimo bersaglio. In fondo, per essere carnefici non serve coraggio, solo complicità.
E le vittime? Sono spesso le persone migliori. Talento, integrità, indipendenza: queste qualità fanno paura a chi vive nel bisogno di dominare o di appiattire. Paradossalmente, sono proprio la forza e l’unicità della vittima a renderla un bersaglio. I solitari, quelli che non si piegano, i “troppo bravi” o quelli che hanno il coraggio di dire no sono le prede preferite. Più brilli, più attiri l’odio di chi si sente minacciato dalla tua luce.
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Le conseguenze sono devastanti. Per la vittima, il prezzo è altissimo: ansia, depressione, insonnia, malattie psicosomatiche. Spesso si arriva al burnout, all’abbandono del lavoro e, nei casi più estremi, a gesti tragici. Ma anche i carnefici pagano, anche se non sempre subito: il loro potere si sgretola nel tempo, le relazioni si logorano, e il rischio di conseguenze legali è reale. Infine, le aziende non sono immuni: la produttività crolla, il turnover aumenta, i costi legati a denunce e risarcimenti si impennano. E cosa dire dell’immagine aziendale? Nessuno vuole lavorare in un luogo noto per essere una fossa di serpenti.
Ma il mobbing non è solo un problema individuale: è un riflesso di un sistema malato. Dove c’è mobbing, c’è una cultura lavorativa tossica, una leadership incompetente, un ambiente in cui il rispetto e il benessere sono ignorati in favore di potere e controllo. Non è un caso che le organizzazioni sane abbiano meno episodi di mobbing: quando si investe nel rispetto e nella valorizzazione delle persone, queste dinamiche semplicemente non trovano terreno fertile.
Cosa fare, allora? Se sei una vittima, la prima cosa è rompere il silenzio. Documenta ogni episodio, cerca alleati, denuncia. Il mobbing si nutre del silenzio e dell’isolamento, quindi spezzare queste catene è il primo passo verso la libertà. Per le aziende, invece, è tempo di smettere di chiudere un occhio. Creare un ambiente sicuro e rispettoso non è un lusso, ma una necessità. Formazione, sensibilizzazione, tolleranza zero verso comportamenti abusivi: questo è il minimo indispensabile.
Il lavoro dovrebbe essere uno spazio per crescere, non una trappola che ti annienta giorno dopo giorno. Il mobbing è una battaglia che riguarda tutti: chi lo subisce, chi lo perpetua e chi lo osserva in silenzio. La tua voce, il tuo coraggio, la tua dignità sono le armi più potenti che hai. Non permettere mai a nessuno di toglierti tutto questo. Non nel lavoro, non nella vita.