La storia che ti racconti è il motore della tua prestazione

Muhammad Ali aveva un talento straordinario, ma la sua vera rivoluzione iniziò prima che il mondo lo scoprisse. Si dichiarò “il più grande” quando non lo era ancora, trasformando un’affermazione in un dispositivo psicologico potentissimo. Ali ripeteva che è la ripetizione dell’affermazione a far nascere la convinzione, e quando la convinzione diventa profonda, le cose iniziano ad accadere. Questa è la radice più semplice e brutale dell’autosuggestione: la parola diventa identità, poi comportamento, poi risultato. Ora potrebbe apparire come una affermazione tipica del mondo di oggi ma a me non piace fare affermazioni senza corredarle di qualcosa di scientifico.

Daniel Kahneman (Nobel 2003), autore di un libro che considero davvero illuminante, Pensieri Lenti Pensieri Veloci, ricorda che un messaggio, per incidere su di noi, non ha bisogno di essere vero. Basta che non venga respinto subito perchè ritenuto ragionevolmente ingannevole e il cervello inizia a processarlo dentro le sue reti associative. La veridicità diventa un dettaglio marginale: ciò che conta è l’esposizione, la ripetizione, il contesto in cui l’informazione si deposita. È sufficiente che qualcosa sia credibile, o anche solo “non incredibile”, perché inizi a orientare attenzione, memoria, valutazioni e azioni.

Uno degli esperimenti più noti, e forse più inquietanti, è l’Effetto Florida di John Bargh. Nel 1996 fornì a gruppi di partecipanti delle schede con parole da utilizzare per creare frasi. Solo alcuni gruppi ricevevano parole legate alla vecchiaia: calvo, rugoso, grigio, artrite, Florida, smemorato. Nessuno sapeva qual era il vero scopo del test. Dopo aver completato l’esercizio, gli sperimentatori cronometarono la camminata dei partecipanti lungo un corridoio. Chi aveva usato parole legate alla vecchiaia camminava più lentamente, come se l’idea stessa di “anzianità”, interiorizzata in modo impercettibile, avesse modificato il comportamento motorio. Uno stimolo linguistico aveva generato una risposta fisica.

Il dato forse più scomodo è proprio questo: la nostra autodeterminazione è molto meno libera di quanto ci raccontiamo. Rispondiamo continuamente a priming ambientali, percettivi e linguistici. Ci adattiamo a segnali sottili che reindirizzano la nostra percezione di noi stessi e del mondo. La narrazione che abita la mente finisce per modellare le aspettative, poi le scelte, poi la realtà concreta.

E qui entra il cuore del tema: la storia che raccontiamo di noi diventa la nostra traiettoria. Ciò che un atleta si ripete prima della gara, ciò che un team ribadisce nei momenti critici della stagione, ciò che un’azienda afferma nei suoi riti quotidiani, costruisce un perimetro mentale entro cui le persone interpretano successi, errori, opportunità e limiti. Questo processo, che Robert K. Merton definì “profezia che si autoavvera”, non ha nulla di magico. È un meccanismo cognitivo: la narrazione genera aspettativa, l’aspettativa orienta il comportamento, il comportamento produce gli esiti che confermano la narrazione.

Per questo, quando un atleta dice “sarò un campione” e ci crede fino in fondo, non si tratta di ottimismo ingenuo. È un’architettura mentale che ridefinisce l’identità e condiziona ciò che il sistema attentivo seleziona, cosa considera possibile, dove dirige le proprie energie. L’immaginazione non è un lusso, ma un dispositivo operativo. Chi immagina con precisione costruisce mappe. Chi finge finché non avviene sta semplicemente anticipando, a livello motorio e attentivo, comportamenti futuri. È imitazione mentale, pre-attivazione, preparazione.

Questa dinamica si intreccia con un altro fenomeno chiave: l’ancoraggio. La prima informazione che riceviamo diventa la cornice entro cui giudichiamo tutto il resto. I venditori lo sanno bene: “Di solito costa 20 euro… ma a lei lo faccio a 5.” La prima cifra non scompare, resta come punto di riferimento e distorce la valutazione razionale. Allo stesso modo, la prima idea che abbiamo di noi stessi — spesso ricevuta dall’ambiente, dalla famiglia, dai risultati precoci — diventa l’ancora che orienta la percezione di ciò che possiamo o non possiamo fare.

In fondo, tutte queste dinamiche convergono verso un’unica conclusione: il nostro comportamento è la risposta a una storia. Una storia che può elevarci o limitarci, renderci competitivi o fragili, aprirci possibilità o chiuderle. Ogni atleta, ogni professionista, ogni squadra vive dentro la propria narrazione, spesso senza saperlo. Chi impara a scegliere le parole, le immagini e i concetti che abitano la propria mente, sceglie anche la direzione della propria prestazione.

Il punto non è inventarsi identità fittizie o ripetere frasi motivazionali come fossero talismani. Il punto è riconoscere che ciò a cui ci esponiamo — linguaggi, concetti, aspettative — diventa la struttura da cui dipende la nostra capacità di concentrazione, resilienza, decisione e coraggio. Lavorare sulla propria storia interiore non è psicologia leggera: è ingegneria della performance.


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