FLOP Iapichino….. Capita!

Quando la mente non si accende: il caso Iapichino e la mancata attivazione

di Paolo Benini

Questo articolo è una riflessione tecnica e divulgativa a partire da un’intervista pubblica rilasciata da Larissa Iapichino dopo la gara di qualificazione ai Mondiali di atletica 2025. L’obiettivo non è giudicare la prestazione, ma approfondire in chiave scientifica e psicologica i meccanismi legati all’attivazione mentale in gara.

Quando guardiamo un salto, una corsa, una gara, vediamo solo l’azione finale, quella visibile. Ma quella prestazione non comincia sulla pedana: comincia prima, nella testa dell’atleta. Nella sua fisiologia, nella sua attenzione, nella sua capacità di “accendersi” al momento giusto.

Questa parte è sempre sottovalutata. E quasi mai viene gestita da chi ha competenze reali sul funzionamento mentale e neurofisiologico della prestazione.

Questo non significa che un esperto possa garantire che non si verifichino blackout, ma certamente può:

leggere i segnali prima che esplodano ridurre il rischio di rottura interna preparare l’atleta a riconoscere e governare i propri stati di attivazione

Ed è qui che si colloca il caso Iapichino: non nella tecnica, ma nella soglia tra corpo e mente.

“Non mi sono caricata nel posto giusto.”

“Sono sotto shock, non ho emozioni. È come se non fosse reale. Un incubo che non mi riguarda.”

Larissa Iapichino ha parlato così dopo l’eliminazione nelle qualificazioni del salto in lungo ai Mondiali di atletica 2025.

Nessun accenno a errori tecnici, nessuna giustificazione meccanica. Solo una descrizione sincera di un vuoto interiore.

Durante l’intervista ha raccontato che il padre – presente in tribuna – ha provato a farla reagire, vedendola “strana” e spenta:

“Mi diceva delle cose, provava a farmi uscire qualcosa, ma non è servito.”

Quando un’atleta dice di non essersi “caricato nel posto giusto”, non sta parlando di motivazione. Sta dicendo che non è entrato nella propria zona neuropsicologica ottimale.

La prestazione non è questione di volontà generica.

Un atleta può essere motivato, pronto, tecnicamente allenato, e fallire comunque. Perché l’attivazione psicofisiologica è un processo autonomo, profondo, che deve accendersi in sincronia.

E quando questa scintilla non si accende, non c’è gesto tecnico che tenga.

L’attivazione è una risonanza interna tra:

tensione muscolare percezione attenzione emozione stato neurochimico

Quando manca, l’atleta può sembrare “presente”, ma non è sintonizzato. E la prestazione si svuota.

IZOF – Individual Zone of Optimal Functioning

Ogni atleta ha una propria zona di attivazione ottimale.

Non esiste un livello “giusto” valido per tutti. Per alcuni l’attivazione deve essere alta, intensa. Per altri, più bassa, centrata.

Ciò che conta è riconoscere la propria soglia soggettiva di funzionamento, quella in cui si è dentro il gesto e connessi al contesto.

L’errore più frequente negli staff tecnici è cercare di “caricare” l’atleta con stimoli esterni, convinti che basti un richiamo in più, una parola forte, un richiamo emotivo.

Ma la zona non si forza. Si raggiunge.

Con consapevolezza, pratica, ascolto profondo dei segnali interni.

Il tentativo del padre di Larissa – pur umano e comprensibile – non poteva funzionare: perché ciò che mancava non era lo stimolo, ma la condizione per riceverlo.

“Non ho emozioni.”

“È come se non fosse reale.”

Sono parole che descrivono una dissociazione interna.

Possono essere lette come:

difese post-gara, per anestetizzare il fallimento oppure come testimonianza diretta dello stato vissuto anche in gara

In entrambi i casi, rivelano un’interruzione del flusso prestativo. L’atleta non è nel corpo, non è nella gara, non è nell’azione.

Grandi atleti hanno vissuto situazioni simili:

Simone Biles (Tokyo 2021): “twisties”, completa perdita di connessione mente-corpo Mikaela Shiffrin (Pechino 2022): tre uscite di pista, “non so cosa mi succede” Federica Pellegrini, in gare opache, senza slancio né ritmo Gianmarco Tamberi, in difficoltà post-infortunio a ritrovare la scintilla. E tantissimi altri.

Tutti casi in cui la mente non ha seguito il corpo. O il contrario.

Allenare la prestazione oggi significa allenare la risonanza.

Non basta più lavorare su tecnica, forza o motivazione. Serve costruire:

consapevolezza interna gestione soggettiva dell’attivazione capacità di riconoscere quando si è fuori zona

Serve anche uno staff competente, che sappia leggere ciò che non appare nei dati, nei cronometri, nelle statistiche.

La prestazione è una conseguenza. La causa è invisibile.

Il corpo era sulla pedana, ma la mente non era pronta.

Post Scriptum – Qualche segnale già nel passato?

Senza voler trarre conclusioni definitive o formulare giudizi, si possono raccogliere alcune dichiarazioni rilasciate da Larissa Iapichino in momenti diversi della sua carriera che fanno emergere, almeno in parte, elementi di fragilità o di difficoltà nella gestione dell’attivazione mentale e della prestazione sotto pressione.

“Mi auto-sabotavo. Ho una testa complessa” (Corriere della Sera, marzo 2025) Una dichiarazione esplicita che rivela autocoscienza e consapevolezza di una dimensione interna a volte problematica. “Non mi sono piaciuta. Problemi con le rincorse” (OA Sport, giugno 2025) Dopo una Diamond League, pur con un buon risultato, Larissa ha ammesso una sensazione di scollamento tecnico, con implicazioni che possono anche riguardare lo stato mentale. “Mi è mancato qualcosa… non sono riuscita ad accendermi” (Fanpage, Olimpiadi Parigi 2024) Dopo un quarto posto ai Giochi, una delle frasi più significative per chi si occupa di attivazione e performance. “Non sono riuscita ad accendermi” è un segnale netto. “La pedana ti insegna a non dissipare le energie mentali” (Rivista Undici, aprile 2024) In un’intervista più ampia, emerge un altro spunto: l’importanza di non disperdere le risorse mentali. Anche questo mostra consapevolezza e, forse, esperienza diretta di fatica nel regolare la propria attivazione.

Queste osservazioni …CHIARAMENTE …. non bastano, da sole, per definire un pattern. È possibile che dichiarazioni simili si trovino anche in altri atleti d’élite. Tuttavia, ciò che Larissa dice – spesso con lucidità – lascia intravedere che il piano mentale non è mai stato secondario nella sua storia sportiva.

Le sue parole lo fanno trasparire.

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