
La morte di Giorgio Armani non è soltanto la scomparsa di un protagonista della moda. È anche l’occasione per riflettere su valori universali che riguardano la performance, lo sport e la vita stessa.
Una delle immagini diventate simbolo in questi giorni lo ritrae, a 91 anni, mentre sistema personalmente un manichino nella sua boutique di via Montenapoleone. Non è folklore, non è posa per un fotografo: è la rappresentazione plastica di una motivazione intrinseca fortissima, ciò che Deci e Ryan (1985) definiscono come l’energia che nasce dal fare qualcosa che si percepisce come significativo, indipendentemente dall’età e dalle condizioni.
Dietro a questa disciplina c’è una storia personale precisa. Armani stesso raccontò a Gianni Minoli l’influenza di una madre rimasta vedova molto presto. Una donna che, dovendo crescere due figli da sola, impose una severità ferrea, distribuendo i compiti domestici in modo alternato tra i bambini. Nessuno era esentato: maschi o femmine, tutti partecipavano alla vita familiare. Una durezza che non era gratuita, ma necessaria, perché l’unica condizione possibile per mantenere ordine, stabilità e responsabilità in una situazione difficile.
Dal punto di vista psicologico, questo tipo di educazione contribuisce a sviluppare ciò che oggi definiamo resilienza: la capacità di tollerare le frustrazioni, di posticipare le gratificazioni immediate e di comprendere che il benessere non è un diritto automatico, ma il risultato di impegno e sacrificio. È un aspetto che contrasta con una cultura contemporanea in cui i bisogni vengono spesso soddisfatti senza fatica, riducendo nei giovani la capacità di reggere lo stress e di affrontare i fallimenti.
Quella matrice si riflette nell’uomo e nel professionista: molto duro con sé stesso, molto disciplinato, con idee chiare e con la capacità di metterle in atto, pretendendo lo stesso rigore da chi lavorava con lui. Con Minoli, Armani ribadì proprio questo: la disciplina come valore doppio, da esercitare verso sé stessi e da richiedere agli altri.
In altre occasioni — forse anche nella stessa conversazione, e comunque oggi ripreso da molti organi di stampa — Armani ha espresso la sua filosofia in una formula diventata celebre: il successo è per l’80% disciplina e per il 20% creatività. Lo studio delle biografie, delle interviste e delle storie personali serve proprio a questo: a capire cosa c’è dietro al grande successo o, almeno, dietro a una parte essenziale di esso.
Dal punto di vista scientifico, questa impostazione trova solide conferme. Angela Duckworth (2016) ha dimostrato che il grit — la combinazione di passione e perseveranza — predice meglio del talento puro il raggiungimento di obiettivi di lungo termine. Anders Ericsson (1993), con il concetto di deliberate practice, ha mostrato che l’eccellenza nasce da anni di pratica intenzionale e disciplinata, più che da doti innate. E Zimmerman (2000) ha definito la self-regulation come la capacità di darsi obiettivi, pianificare comportamenti coerenti e mantenere la rotta anche di fronte alle difficoltà.
Armani, nel suo settore, ha incarnato tutto questo. Lavorava fino all’ultimo, controllava i dettagli delle collezioni anche alla vigilia della sua morte, restava fedele a una linea che Valentino ha definito “essere rimasto fedele a sé stesso”. Una visione chiara, perseguita con rigore, senza contraddizioni tra parole e azioni.
La lezione per lo sport è evidente. Un atleta che vuole arrivare al vertice non può affidarsi solo al talento o all’estro. Serve una visione, una missione personale, e soprattutto autodisciplina per tradurre quell’idea in comportamenti quotidiani. La creatività — come ricordava Armani — è importante, ma senza disciplina resta sospesa nel vuoto.
Armani non recitava mantra motivazionali: li viveva.
E questa è la differenza decisiva, nello sport come nella vita.
Riferimenti
- Deci, E. L., & Ryan, R. M. (1985). Intrinsic Motivation and Self-Determination in Human Behavior. Springer.
- Duckworth, A. (2016). Grit: The Power of Passion and Perseverance. Scribner.
- Ericsson, K. A., Krampe, R. T., & Tesch-Römer, C. (1993). The role of deliberate practice in the acquisition of expert performance. Psychological Review, 100(3), 363–406.
- Zimmerman, B. J. (2000). Attaining self-regulation: A social cognitive perspective. In M. Boekaerts, P. Pintrich, & M. Zeidner (Eds.), Handbook of Self-Regulation (pp. 13–39). Academic Press.