
Il tipo umano che non affonda:
Nel mio studiare e peregrinare tra fonti, articoli e biografie più o meno dimenticate, mi sono imbattuto in un personaggio tanto affascinante quanto ignoto ai più: Richard Norris Williams, tennista americano, campione olimpico, vincitore dello US open di allora, vincitore del doppio a Wimbledon, 5 volte vincitore in Coppa Davis, sopravvissuto al Titanic e decorato nella Prima Guerra Mondiale. Non un protagonista da copertina, né un eroe celebrato. Piuttosto, una figura relativamente silenziosa, concentrata, che attraversa la tragedia e la gloria senza trasformare nulla in spettacolo. Ho raccolto ciò che esiste — poco, in fondo — su di lui, e sulla base della mia esperienza clinica e professionale, mi sono divertito a costruire un profilo psicologico generico, certamente indicativo e parziale, ma utile per ragionare sul tipo umano che incarna. Un modo per osservare da vicino un certo stile mentale, una certa organizzazione del significato personale, che emerge solo in condizioni estreme. Forse utile per evitare tutti gli sproloqui che talvolta oggi aleggiano su personaggi ,sportivi e non, di oggi.
Il punto da cui partire non può che essere la notte del 14 aprile 1912. Richard Norris Williams si trova sul Titanic con il padre quando la nave colpisce l’iceberg. Ma il tratto più impressionante non è il naufragio in sé: è la permanenza nelle acque gelide dell’Atlantico per circa 9 ore, (pare abbia ispirato certe scene del film) aggrappato a una scialuppa rovesciata, e soprattutto la decisione che prende dopo il salvataggio. I medici della Carpathia vogliono amputargli entrambe le gambe, già gravemente compromesse dal congelamento. La diagnosi è chiara, il rischio di infezione altissimo. Ma Williams si oppone. Rifiuta l’intervento e si assume volontariamente la responsabilità di tenere quegli arti danneggiati, decidendo invece di camminare ad intervalli sul ponte per cercare di riattivare la circolazione. Non chiede aiuto, non si lamenta, non cerca scorciatoie. Agisce. E funziona.
È da quel gesto — apparentemente semplice, ma in realtà clinicamente, psicologicamente e simbolicamente radicale — che possiamo iniziare a leggere il tipo umano che ci interessa. Non l’eroe. Non l’icona. Ma il soggetto ad altissima resilienza organizzativa, capace di reggere l’incoerenza, riformulare il significato e strutturare un’azione efficace anche quando il senso vacilla. Williams è, in questo senso, il tipo umano che non affonda, non solo perché sopravvive, ma perché riorganizza sé stesso mentre l’ambiente crolla.
Restare lucidi quando il mondo perde senso
Quando parliamo di “incoerenza”, intendiamo quelle situazioni in cui ciò che ci accade non ha più nulla a che fare con ciò che eravamo pronti a vivere. Il sistema di significati con cui interpretiamo la realtà si rompe. È il momento in cui tutto vacilla: i riferimenti, le aspettative, le regole. Per molti questo porta al blocco, alla confusione, alla paralisi.
Ma alcune persone — come Williams — reggono la frattura. Riescono ad agire anche quando il mondo non ha più un significato immediato. Non aspettano di “capire” per muoversi. Iniziano a camminare. A fare. A decidere. E così facendo, rimettono ordine nel caos. L’azione precede la chiarezza. È agendo che ritrovano continuità, direzione, controllo.
Quando l’azione tiene insieme chi sei
Per questi soggetti, fare qualcosa non è solo reagire: è tenersi insieme. Allenarsi, riprendere una routine, competere: tutto ciò che è strutturato, regolare, concreto diventa uno strumento per ristabilire equilibrio interno. L’identità non si regge sulla memoria o sul racconto, ma sulla possibilità di tornare a funzionare.
Dopo il naufragio, Williams torna a giocare. Non per vendicarsi della paura o per dimostrare qualcosa al mondo. Ma perché la prestazione è il suo modo di rimettere in ordine l’esperienza. Il suo mondo interiore si regola attraverso l’atto concreto. L’azione, il compito, la sfida sono ciò che gli permette di riformulare la propria continuità personale.

Forti, basta esserlo.
In questo tipo di soggetti, non c’è bisogno di raccontare la propria forza. Il trauma non viene esibito. Non diventa il centro del discorso. Non c’è bisogno di legittimarsi parlando del dolore, né di farne un biglietto da visita. La forza è nella continuità. Nell’agire. Nel silenzio.
Williams non usa la sua esperienza sul Titanic per costruirsi un’immagine. Non capitalizza l’orrore. Non cerca attenzione. Semplicemente va avanti. Vince. Serve in guerra. Torna a vincere. E lo fa senza dramma, senza costruzioni simboliche. La sua energia non è spettacolare. È sobria, contenuta, profondamente orientata al fare.
Il corpo come strumento di equilibrio
In persone come Williams, il corpo non è solo ciò che si possiede: è ciò che si usa per rimettere in ordine l’esperienza. Camminare, muoversi, allenarsi non sono semplici azioni: sono modalità attraverso cui la mente si riorganizza. Il corpo non segue la testa: lavora con la testa.
Camminare ogni due ore sul ponte per salvare le gambe non è un atto di testardaggine, ma una strategia di riorganizzazione completa. Queste persone integrano corpo e mente in modo fluido. L’attività fisica è parte della regolazione emotiva e cognitiva. Il movimento diventa un modo per recuperare continuità.
Il trauma non è un’identità
La differenza più netta rispetto ad altri stili psicologici è che qui il trauma non diventa centrale. Non è l’etichetta con cui ci si definisce. Non è l’origine di un nuovo sé. È un evento che viene integrato, assorbito, portato dentro senza che diventi protagonista. Il passato non viene cancellato, ma nemmeno ingigantito.
Per questo, Williams non è il “sopravvissuto del Titanic”. È il tennista, l’ufficiale decorato, il vincitore. Perché tutto ciò che ha vissuto — anche la tragedia — è stato riassorbito in una traiettoria coerente, senza che il dolore prenda il sopravvento sulla funzione. Non c’è bisogno di trasformare la ferita in narrazione. Basta continuare a camminare.

Dove si trovano oggi queste persone
Sono poche, spesso silenziose, quasi mai visibili. Ma ci sono. Tra gli atleti che rientrano dopo un infortunio grave senza fare rumore. Tra gli imprenditori che risollevano un’azienda senza raccontare ogni passaggio. Tra i militari, i soccorritori, i medici che tengono insieme reparto e lucidità senza mai voler essere celebrati. Persone comuni con i loro Titanic
Sono quelli che non cercano il senso fuori, ma lo ricostruiscono dentro. Agiscono prima di spiegare. E spesso, nemmeno spiegano. Perché la loro forza non è nel racconto. È nel gesto quotidiano, coerente, concreto. È lì che si vede il tipo di umano che non affonda.