“Così è crudele”

Il linguaggio del fallimento come indice di assetto mentale

di Paolo Benini

Facciamo un gioco,…nemmeno poi tanto!

Questa valutazione ha valore assolutamente e genericamente indicativo e necessita di approfondimenti da parte di un professionista. Il profiling è una tecnica nota ma certo bisogna avere piu’ dati da integrare per trarre indicazioni attraverso le quali poi operare. Lo scopo di questo articolo è far capire che una partita, un gioco, un atleta non sono fatti solo da risultati o da ciò che tutti vedono e dalle suggestioni personali che ne ricavano. L’ analisi è complessa e multifattoriale e basata su probabilità scientificamente sostenibili. Non conosco Paolini, atleta che gode della mia massima ammirazione, quindi utilizzo questa intervista pubblica per ricavare indicazioni probabili che certo valgono più di mille interpretazioni che poggiano solo su nostre suggestioni. Ci sono anche altre interviste di periodi diversi dove si intravedono aspetti interessanti.

Parigi, 1° giugno 2025.
Dopo la sconfitta contro Elina Svitolina al Roland Garros, Jasmine Paolini affronta la stampa con una lucidità apparente che, analizzata nel dettaglio, rivela molto più della semplice delusione sportiva. Le sue parole contengono indicatori precisi dello stato mentale in cui si trovava durante e dopo il match.

“Questo è il tennis, anche se è difficile accettarlo, lo devo fare.”
La frase mostra un tentativo iniziale di razionalizzazione, ma anche una resistenza psicologica alla realtà dell’evento. L’uso del “devo” segnala un’imposizione cognitiva, non una reale integrazione emotiva.

“È stata una partita complicata, ho avuto le mie chances e non le ho sfruttate.”
È l’inizio della narrativa autoaccusatoria, quella che nei miei scritti – in particolare in Primum Non Nocere – definisco come attribuzione interna colpevolizzante, un meccanismo che consuma energia mentale e riduce la capacità di apprendere dall’esperienza.

“Perché l’ho persa? Perché lei è una grande giocatrice. Ho avuto le mie occasioni, non le ho sfruttate e lei è stata brava.”
Una doppia attribuzione, interna (non le ho sfruttate) ed esterna (lei è stata brava), che denota confusione nella lettura dell’evento. La struttura narrativa si frammenta, segno di un’elaborazione ancora incompleta.

“Forse avrei potuto fare qualcosa in più su uno dei match point, ma è andata così.”
La frase chiude la porta a ogni rielaborazione. È il classico meccanismo di ritiro mentale, molto vicino alla rassegnazione cognitiva.

“Mi spiace perché stavo giocando un gran tennis, potevo forse giocar meglio alcuni game di servizio ma lei quando è sotto gioca sempre bene, nel momento decisivo è stata molto aggressiva.”
Il riferimento alla qualità del proprio gioco è subito ridimensionato: si attiva un conflitto percettivo tra l’autoefficacia e l’evento fallimentare, incompatibile per chi non ha ancora sviluppato una narrativa integrativa della sconfitta. In Performance, analizzo come l’incoerenza tra percezione di prestazione e risultato possa creare disallineamento cognitivo, terreno fertile per l’insicurezza.

“In questo tipo di partite tutto ruota intorno ad un punto; oggi l’ho persa ma se le cose fossero girate in un altro modo ora avremmo analizzato un’altra partita.”
Tipico pensiero dicotomico: un solo punto come spartiacque assoluto tra successo e fallimento. In Oltre ogni Vittoriadescrivo questa logica binaria come disfunzionale, poiché nega il continuum della prestazione e azzera ogni margine di crescita.

“Così è crudele, se avessi fatto quel punto ora avremmo analizzato il match in modo molto positivo… e invece è tutto molto negativo.”
È la frase chiave. Un’etichettatura totalizzante: il passaggio da “evento negativo” a “esperienza completamente negativa”. Questo è l’emblema del pensiero catastrofico, che innesca stati emotivi amplificati e paralizza il recupero cognitivo. Il tutto per un solo punto.

“E’ stata una partita di ottimo livello, nel terzo set sono calata, ho fatto qualche errore stupido e non sono riuscita a rimanerle attaccata nel punteggio.”
Qui emerge un secondo momento chiave: la perdita della lucidità. Questo abbassamento della soglia attentiva è descritto dettagliatamente da Terry Orlick nei suoi studi sulla prestazione olimpica. Come spiegato in Eccellere nel contesto olimpico, l’atleta che perde la centratura sul compito scivola in uno stato alterato, in cui i pensieri diventano frammentati e dominati dalla percezione del pericolo imminente.

“Rimpiango proprio quello, il terzo set andato via troppo velocemente. Mi sono buttata giù, ero poco lucida e non sarebbe dovuto accadere.”
Questa è un’ammissione esplicita di crollo cognitivo ed emotivo. L’autocritica non è funzionale: non c’è strategia, solo rammarico, un elemento che – se non decostruito – favorisce la cronicizzazione del malessere.

“Cose che a questo livello, con giocatrici del genere, non ti vengono perdonate.”
Il linguaggio si fa ora impersonale e definitivo. La colpa si somma alla percezione di irreversibilità, generando un senso di impotenza appresa, ben studiato da Martin Seligman*. I suoi lavori sull’optimistic explanatory style dimostrano come questo tipo di linguaggio, se abituale, sia predittivo di prestazioni peggiori nel medio termine.

“Lei è sempre difficile da affrontare, sta giocando bene e oltre ad essere solida sa essere molto aggressiva. Inoltre, probabilmente, le piace anche giocare contro di me…”
Questa chiusura apre una dimensione personale. Il riferimento alla “preferenza” dell’altra nel giocare contro di lei introduce una valutazione identitaria e un possibile senso di inferiorità percepita, elemento che andrebbe esplorato in ottica preventiva.

L’intervista di Jasmine Paolini è un esempio quasi didattico di come il linguaggio post-sconfitta riveli l’architettura cognitiva dell’atleta. Le sue dichiarazioni non sono soltanto il riflesso emotivo di una delusione: sono l’indicatore strutturale di un assetto mentale in disallineamento, dove autoefficacia, controllo e resilienza sono temporaneamente compromessi.

Come ho più volte sostenuto nei miei lavori, la prestazione mentale non si misura solo in campo, ma si decodifica anche a parole. È nella grammatica dell’insuccesso che si individua la qualità reale dell’atleta e la direzione della sua futura traiettoria.

Chi legge, ascolta, allena o prepara mentalmente atleti non può ignorare questi segnali.

Dimenticavo: se è preparato e in grado di riconoscerli!

* Martin Seligman: quando lo stile narrativo predice la performance

Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva, è stato tra i primi a dimostrare scientificamente che il linguaggio usato dagli atleti per spiegare vittorie e sconfitte è predittivo dei risultati futuri. Analizzando interviste pre-stagionali di squadre professionistiche (tra cui football e baseball), evidenziò come uno stile esplicativo ottimistico – interno, stabile e controllabile – fosse associato a migliori performance e maggiore resilienza, anche dopo insuccessi. Al contrario, uno stile pessimista (esterno, instabile, incontrollabile) aumentava la probabilità di flessioni psicologiche e risultati negativi. In sostanza, Seligman “leggeva” il futuro sportivo ascoltando le parole del presente.

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