La finale che non c’è stata

La finale che non c’è stata: 5-0, e l’Inter sparisce a Monaco

PSG-Inter 5 a 0. Finale di Champions League.
Monaco. Una sola squadra in campo.
Un risultato che va oltre ogni aspettativa, anche le più pessimistiche. Non è una sconfitta: è una scomparsa. E quando succede in una finale, a quel livello, la spiegazione non può stare solo nei piedi. Va cercata altrove: nella testa, nel carico emotivo, nella gestione del percorso.

L’Inter ci è arrivata dopo aver perso lo scudetto all’ultima giornata, per un punto. Dopo aver perso anche la Coppa Italia. E intorno, una narrazione mediatica crescente e ossessiva: “squadra forte, ma perde tutto”. “In quattro anni solo uno scudetto”
Frasi che si possono liquidare come chiacchiere da bar — e lo sono.
Ma le chiacchiere, hanno qualche fondamento di realtà e quando diventano clima, ti entrano sotto pelle.
Ti logorano. Senza che te ne accorga.

E così accade che arrivi alla finale vuoto. Sgonfio. Non vuoi mollare, ma non riesci neanche a stare dentro la partita. Prendi due gol subito. Poi crolli. E non reagisci.
Non perché non vuoi, ma perché non riesci. Perché tutto, dentro, si è già esaurito.

Il PSG ha fatto la sua partita, con lucidità feroce. Squadra certamente superiore e non per i soldi investiti, perchè hanno avuto negli anni i top player mondiali senza mai vincere niente. Ma il PSG non ha dovuto fare nulla di straordinario essendo in campo da solo e una certa misura la da paradossalmente l’ assenza di cartellini o di qualche fallo un po’ rude. Ha semplicemente giocato una finale come si gioca una finale: testa pulita, gambe fresche, motivazione al top.
L’Inter, al contrario, ha portato in campo i residui di tutto il resto: della fatica, della pressione, delle attese, delle chiacchiere, e forse anche di un modello di lavoro che ormai comincia a mostrare i suoi limiti.

Non è questione di allenarsi tanto. È questione di come si gestisce il tutto.
In alcune squadre di altissimo livello – europee e oltre – la gestione del tempo, del lavoro e della condizione mentale è completamente diversa.
Vista da qui può sembrare bizzarra, ma in realtà è fondata su logiche psicologiche solide: più attenzione alla percezione della fatica, più cura degli equilibri interni, più consapevolezza che la prestazione è un equilibrio delicato tra corpo e mente.

Da noi, invece, siamo ancora fermi ai monologhi sulla “quantità e qualità”, al mito del “sputare sangue”. Frasi che fanno scena, ma che spesso si traducono in sovraccarico, in stanchezza emotiva, in logoramento dell’attenzione e della determinazione.
È il vecchio “no pain, no gain” – che non regge più, non così.
Non nel calcio moderno, non nello sport ad alto livello.

La condizione di overtraining non è solo fisica. È mentale.
Si manifesta anche in quella che viene chiamata “percezione della fatica”: due atleti con lo stesso carico possono sentirlo in modo totalmente diverso, perché la fatica ha una componente psicologica potente. E quando si supera quella soglia senza strumenti adeguati, crolla tutto. Anche nelle finali. Soprattutto lì.

Non si può più improvvisare o conservare un modello che è vecchio.
Serve misurare, ascoltare, dosare, regolare.
Il 5-0 di Monaco è il risultato di una somma di cose. E la più pesante, in quella somma, è stata la testa.

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