Lo squilibrio consapevole.

La mente estrema dell’atleta d’élite

Nel mondo della performance, soprattutto ai massimi livelli, si parla spesso di equilibrio. È una parola che suona bene, rassicura, tranquillizza l’ambiente. Un atleta equilibrato è, nell’immaginario collettivo, quello che controlla le emozioni, gestisce la pressione, mantiene lucidità in ogni condizione e lo fa senza sforzo come fosse una condizione precostituita. È l’immagine patinata che piace magari a sponsor, media e commentatori. Ma chi lavora sul campo, chi osserva da vicino i processi interni che portano un essere umano a prestazioni fuori scala, sa che questa immagine è solo parzialmente vera. E soprattutto, è fuorviante. I grandi campioni non sono “in equilibrio” come condizione “pre”. O almeno, non lo sono secondo i parametri che dall’ sterno si potrebbero pensare. Hanno assetti mentali particolari, spesso estremi. Hanno una spinta interna che la maggior parte delle volte non si adatta facilmente alle logiche della moderazione. Vivono intensità, focalizzazione, ripetitività, isolamento. Costruiscono rituali mentali e comportamentali che, in altri contesti, sarebbero considerati rigidi, se non patologici. Il loro funzionamento psicologico non è placido, lineare . È orientato. Spinto. Tagliente.

E questo, se gestito con consapevolezza, è esattamente ciò che serve per eccellere ovviamente se esistono anche altre condizioni. Il punto, infatti, non è la presenza di tratti mentali intensi, selettivi, a volte ossessivi che potrebbero essere distruttivi se lasciati a se stesso . Il punto è quanto l’atleta li conosce, quanto è capace di governarli, quanto è in grado di trasformarli in strumenti e non in vincoli. Non è lo “squilibrio” in sé a determinare la prestazione. È la consapevolezza dello squilibrio, e la capacità di indirizzarlo con lucidità. Una mente estrema non è un problema, anzi ve ne fossero. Lo diventa solo se l’atleta non sa di esserlo. Quando invece la conosce, la domina e la calibra, quella mente diventa una macchina di precisione. Altamente performante, altamente affidabile. Paradossalmente, più “stabile” di tante menti considerate normali, proprio perché costruita sul riconoscimento e sulla padronanza della propria complessità.

Per questo è totalmente inutile insistere su modelli standard di equilibrio mentale. Non esiste un equilibrio uguale per tutti. Esiste un funzionamento soggettivo che, se compreso e ben orchestrato, produce eccellenza. La prestazione non nasce da una mente tranquilla. Nasce da una mente precisa, attiva, coerente, abituata a esplorare sé stessa e capace di sostenere la propria tensione interiore nel tempo. Il vero equilibrio non è assenza di conflitto. È gestione raffinata del proprio caos interno che comunque tende a generarsi sempre nei contesti dell’alta prestazione. Questa forma di padronanza, però, non è scontata. Non si improvvisa. Non si ottiene leggendo un manuale o applicando un esercizio motivazionale generico. È il frutto di un percorso serio, costruito nel tempo, fatto di osservazione, confronto, feedback, errori, correzioni. È un lavoro tecnico e umano insieme. E, soprattutto, è un lavoro che può essere svolto solo da chi ha esperienza reale nel campo della mente e della performance. Non da chi propone ricette preconfezionate. Non da chi copia modelli da altri contesti. Non da chi legge teoria senza aver mai respirato la pressione vera di una gara, un campo, un momento decisivo. Il mercato della psicologia sportiva e del mental coaching è pieno di tecnicismi inutili. Tecniche magari valide, in laboratorio, ma svuotate di senso quando vengono proposte in modo meccanico, scollegate dal profilo individuale dell’atleta. Gli esercizi di respirazione, visualizzazione, gestione dell’attenzione, regolazione dell’arousal possono avere un impatto. Ma hanno senso solo se inseriti dentro un progetto di autoconsapevolezza autentico, cucito su misura, portato avanti da un professionista che sa leggere la complessità mentale dell’atleta e sa dove e come intervenire.

Chi propone strumenti mentali come se fossero scorciatoie sta vendendo illusioni. E in questo settore, le illusioni sono pericolose. Perché l’atleta le paga. In termini di frustrazione, di disallineamento interno, di fallimento funzionale. L’illusione di potersi “aggiustare” con un trucco psicologico standardizzato è una delle trappole più grandi per chi ambisce all’eccellenza. Perché fa perdere tempo, energia, fiducia. Serve dunque una correzione di prospettiva. Bisogna smettere di inseguire l’idea di un atleta idealmente calmo, centrato, sempre lucido, sempre regolato. Quella è un’immagine da brochure, non da campo. La realtà è che molti dei più grandi atleti vivono un dialogo interiore costante, acceso, articolato. E riescono a performare proprio perché sanno gestire quella complessità. Non la negano. Non la censurano. La affrontano. E la organizzano.

È lì che si gioca la partita mentale: nella gestione consapevole del proprio assetto, anche se – o proprio perché – non è “normale”. L’eccellenza non è mai normale. L’equilibrio standardizzato non produce campioni. Produce copie. Ed è proprio questo il nodo: l’atleta d’élite non deve diventare più simile agli altri. Deve diventare più simile a sé stesso. Nella versione più lucida, più consapevole, più funzionale di sé. La mente d’élite non è una mente accomodante. È una mente affilata, progettata per affrontare sfide, reggere pressioni, sostenere livelli di intensità che il senso comune considera eccessivi. E questa struttura mentale richiede una guida all’altezza. Una guida che conosca non solo le tecniche, ma il contesto. Che sappia distinguere tra stress e carico utile, tra ansia e attivazione, tra fragilità e complessità.

Ed è qui che emerge il ruolo decisivo del professionista che accompagna l’atleta. Un professionista vero, con lettura ampia, esperienza concreta, strumenti flessibili. Uno che legge l’atleta, struttura un percorso, calibra ogni intervento con precisione chirurgica. Qualcuno che non cerca di riportare la mente alla normalità, ma di portarla alla massima efficienza possibile nel suo assetto specifico. Questo, oggi, manca. Troppi operatori. Pochi professionisti. Troppa offerta di tecniche. Pochissima cultura della mente. Troppa scorciatoia. Zero visione. Eppure la chiave è semplice. Non servono magie. Serve metodo, rigore, esperienza. Serve un atleta disposto a conoscersi e un tecnico capace di accompagnarlo. Tutto qui. Ma è tutto, in effetti. Lo squilibrio, se è consapevole, non è una minaccia. È un vantaggio competitivo. La mente estrema, se è conosciuta e gestita, non è un rischio. È uno strumento di eccellenza. Ma non lo diventa da sola. E nemmeno con l’aiuto sbagliato. Per questo il lavoro mentale vero, quello che fa la differenza, non ha a che fare con tecniche da manuale, ma con la costruzione di una relazione profonda tra l’atleta e il proprio assetto cognitivo ed emotivo. Non è un processo meccanico, è un cammino di scoperta. Non è una lista di strumenti, è un’interazione viva tra consapevolezza e direzione.

La mente d’élite non ha bisogno di normalità. Ha bisogno di padronanza. La tecnica serve, certo. Ma nelle mani sbagliate è solo decorazione. Nelle mani giuste, nelle mani esperte, diventa ciò che deve essere: una leva consapevole per spingere ancora più in alto un profilo già eccezionale…… se sai di averlo.

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