Djokovic e il vuoto impiattato

Djokovic ha vinto il suo centesimo titolo a trentotto anni, e non è una vittoria come le altre. Non è quella del cannibale al massimo della forma, non è l’ennesimo trofeo messo in bacheca da uno che non può fare altro che vincere. È la vittoria di chi è ormai fuori dal giro dei favoriti, di chi ha perso un po’ di spinta, un po’ di velocità, un po’ di corpo, un po’ di riferimenti, ma non ha perso niente della sua ossessione. È una vittoria , dura, silenziosa, che non fa piu’ notizia come prima e per questo conta di più. Conta perché arriva quando non serve più vincere, quando nessuno lo pretende, quando tutti cominciano a parlarti al passato e con la rapidità del fulmine sono già saliti su altri carri. Conta perché è una dichiarazione di identità fatta senza parole, fatta col gesto, con la continuità, con la coerenza assoluta di chi non si mette mai a contrattare con la propria natura.

È qui che entra Nietzsche, senza bisogno di essere citato. Perché Djokovic è esattamente quella figura che non si piega alla morale del gregge, che non cerca riconoscimento nella massa, che non vuole piacere, non vuole convincere, non vuole essere accettato. È, punto. Non fa storytelling, fa volontà di potenza. Non come dominio sugli altri, ma come fedeltà al proprio stile, al proprio compito. Come l’oltreuomo, non cerca l’approvazione ma la forma piena del sé. Sta in piedi anche nel declino, anzi: proprio lì trova la verità. Non è il gesto eroico e acclamato, ma quello reiterato, ossessivo, imperfetto, che continua anche quando il pubblico ha cambiato canale. Djokovic non si trasforma in altro per restare visibile. Semplicemente continua.

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Ma tutto questo molti non lo vedono. Non lo vedono perché non hanno più la capacità per riconoscere la grandezza. Non ne hanno gli strumenti, non ne hanno il linguaggio. Sono occupati a discutere di piatti, di location, di servizio … di cucina s’intende. Guardano 4 Ristoranti , si emozionano per un soufflé che si affloscia, per un guanciale troppo cotto, per una sala “poco accogliente”. Giocano a essere esperti, giudici, curatori di esperienze gastronomiche. Parlano di “cucina identitaria” con la stessa serietà con cui si dovrebbe parlare di filosofia morale. È tutto un teatro, ma nessuno lo sa più distinguere dalla realtà. Non si va più a mangiare: si va a vivere un’esperienza , una narrazione. Si va a dire “io ci sono stato”, “ho vissuto un’esperienza”, “ho capito il territorio”. Poi si posta una foto, si mette un voto, si archivia tutto.

Djokovic, nel frattempo, continua e vince un torneo da quattro soldi con la stessa ferocia con cui poco tempo fa vinceva uno Slam. Cerca qualcosa che oggi non si cerca più tanto spesso: il limite. Il confine tra quello che può ancora fare e quello che non dovrebbe più riuscire a fare. Una ricerca apparentemente , totalmente inutile per chi ha fatto tutto, vinto tutto, dimostrato tutto. Ma fondamentale per chi non si svende alla logica dell’intrattenimento. Djokovic non intrattiene. Spesso anzi disturba. Perché è un monumento vivente all’idea che la grandezza esista ancora, ma sia diventata invisibile a chi si accontenta del contenuto, dell’effetto, del montaggio. E quindi è naturale che piaccia meno. È naturale che spesso non sia o sia stato capito. Gloria agli antipatici, agli incompresi che se ne fregano. È naturale che venga ridotto a una macchina, a un corpo antipatico, a un rigido monomaniaco che non si concede. In un mondo che si esibisce, lui insiste. E questo basta.

Djokovic non è lì per piacere. È lì per fare. Anche ora, con il corpo che frena, i titoli che basterebbero a chiunque, e il mondo che ormai guarda altrove. Non cerca applausi, non cerca il racconto: fa resistenza. Contro l’epoca del consenso, del contenuto, del tutto subito. Non si adatta. Non si vende. Sta dove vuole stare. Questo non lo rende simpatico. Lo rende necessario.

Djokovic non si impiatta. È grandezza che non si può consumare. Per questo infastidisce. Ricorda a tutti quanto poco siamo disposti a sacrificare, quanto facilmente ci accontentiamo dell’apparenza. Meglio allora il voto al servizio ,al tavolo s’intende , la frase sul “viaggio nei sapori”, l’ “esperienza sensoriale” di un piatto dove il contenuto bisogna immaginarlo, il gioco comodo del giudizio. Fa sentire partecipi. Competenti.

Djokovic vince. Altri votano i piatti.

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