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La somma di tanti piccoli vantaggi o una sterile trovata degli anglosassoni?

“L’ articolo tratta di un tema molto noto e forse anche esasperato. E’ vero che Team Sky aveva un budget di 40.000.000 di euro ed è certo che questo non è un dettaglio da sottovalutare ma tuttavia non capisco mai perché si debba mettere la teoria dei marginal gains in contrapposizione ai soldi. Non ti serve investire tanti soldi se poi non curi tutti i dettagli e anzi spendere tanti soldi è il preludio ,o dovrebbe essere, di quello che farai dopo di buono . Si certo c’è poi un po’ di romanzo intorno ma resta il fatto che la teoria dei marginal gains trasuda di “mentalità”. Quindi il curare tutti i dettagli, curare se stessi in ogni dettaglio, tenere a mente che l’ eccellenza deve divenire un abitudine ,un atteggiamento, va nella direzione della giusta mentalità e vuol dire essere focalizzati, fare ogni cosa in funzione del proprio benessere e quindi della prestazione ed è ciò che dobbiamo tirare fuori da questo articolo.”

L’English Institute of Sport ha recentemente annunciato che in vista dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020 lavorerà a stretto contatto con gli atleti britannici che rappresenteranno il Paese per insegnare loro il modo più corretto per lavarsi le mani. “Infezioni respiratorie e virus gastrointestinali sono due delle minacce più comuni nella carriera di uno sportivo e questo può significare la perdita di tanti giorni di allenamento e, di conseguenza, un peggioramento della performance”, ha spiegato Craig Ranson al The Guardian.

“Viaggiare in spazi ristretti ed entrare in contatto con tante persone, magari stringendosi la mano, aumenta esponenzialmente il rischio”, gli ha fatto eco James Hull del Royal Brompton Hospital. “Può sembrare strano, ma saper lavarsi le mani non significa passarle sotto l’acqua e strofinare. Così come si producono scarpe che riducono la possibilità di infortunarsi, noi vogliamo migliorare nell’individuazione dei problemi respiratori e nella riduzione del rischio, tutto qui”.

Non è passato poi molto dalla prestazione monstre di Eliud Kipchoge, il primo uomo ad abbattere il muro delle due ore nella maratona. Tuttavia, com’è già stato ampiamente spiegato, Kipchoge si è avvalso di qualche “supporto” esterno: un paio di Nike speciali, le Vaporfly Next%, con la suola in fibra di carbonio e l’imbottitura di schiuma, e cinque persone davanti a lui disposte a V per un discorso prettamente aerodinamico. Non si tratta di esperimenti campati in aria: è stato stimato che con il modello precedente di Vaporfly Next% un atleta che impiegava tre ore per completare una maratona avrebbe guadagnato sei minuti, mentre due sono i minuti che Kipchoge sembrerebbe aver risparmiato grazie ai cinque atleti che lo precedevano di qualche metro – che, correndo da lepre solo per alcuni chilometri, non avevano bisogno di quelle migliorie.

In entrambi i casi sono stati fatti chiari riferimenti ai marginal gains, la teoria che viene associata a Dave Brailsford, il general manager del Team INEOS – non è un caso che il tentativo di Kipchoge sia stato fortemente voluto e portato avanti da Jim Ratcliffe, il patron della INEOS nonché l’uomo più ricco del Regno Unito. Già, ma cosa sono i marginal gains?

La teoria dei marginal gains

“Se una persona riesce a migliorare anche solo dell’1% in specifiche aree, noterà che la somma di questi piccoli miglioramenti darà come risultato un notevole miglioramento”.

Ecco come Dave Brailsford riassume da sempre la teoria dei marginal gains, letteralmente “guadagni marginali”. Niente di esagerato, insomma, anche perché la persona – l’unione del corpo e della mente – lo rigetterebbe: piuttosto che anticipare di un’ora la sveglia dall’oggi al domani, intenzione che finirebbe per naufragare dopo pochi giorni, conviene puntarla appena cinque minuti prima del solito, almeno la persona non avrà difficoltà a rispettare l’impegno preso con se stesso e quel vantaggio, per quanto piccolo, sarà quantomeno effettivo.

Dave Brailsford decise che la seconda metà del 2004, quella dei Giochi Olimpici di Atene, sarebbe stato il momento giusto per iniziare ad introdurre questo nuovo approccio nel movimento ciclistico britannico. A quel tempo, Brailsford era il responsabile della performance della pista, ruolo che aveva assunto nel 2003. Brillante e scientifico, si diceva che prima di ogni gara su pista con la nazionale facesse misurare la pressione atmosferica all’interno dei velodromi per calcolare, con l’aiuto della fisica, la giusta pressione con cui gonfiare i tubolari delle biciclette. Che non fosse un sprovveduto divenne lampante alle Olimpiadi di Atene: la Gran Bretagna, infatti, conquistò due medaglie d’oro, il miglior risultato dal 1908. Sì, i tempi erano decisamente maturi.

Nelle due edizioni successive – Pechino 2008 e Londra 2012 – il ciclismo britannico fece razzia di medaglie d’oro, vincendone sedici. Nel 2010, intanto, nasceva il Team Sky, una squadra che aveva in mente sin dalle sue origini di rivoluzionare il mondo del ciclismo: si proponeva di estendere l’uso della bicicletta nel paese – ci sono riusciti, ovviamente – e di accompagnare verso il successo del Tour de France un ciclista britannico, il primo della storia. “Una delle regole principali del business è darsi delle scadenze e fare di tutto per rispettarle”, spiegò Rod Ellingworth in un’intervista al The Guardian. “Il periodo di apprendistato viene solitamente quantificato in diciotto mesi, che nel ciclismo possono corrispondere a due Tour de France: il terzo potrebbe essere quello buono”. Di una precisione incredibile: nel 2012, al terzo Tour de France della sua storia, il Team Sky trionfò con Bradley Wiggins.

Il Team Sky e la nazionale britannica sono stati – e continuano ad essere – due laboratori preziosissimi per Dave Brailsford e la sua teoria. Nonostante lo scotto dell’inesperienza pagato nelle prime due stagioni, gli insegnamenti tratti dall’esperienza in pista si sono rivelati incredibilmente produttivi anche su strada.

“Adesso mi ascoltano perché sono arrivati tanti risultati”, diceva lo stesso Brailsford in un video di qualche anno fa, “ma all’inizio non era così.

Non c’era la volontà di remare nella stessa direzione. Quando oggi noto qualcosa che secondo me non va in una delle biciclette dei ragazzi, il meccanico mi ascolta, controlla e mi ringrazia se gli ho segnalato qualcosa di utile; invece, fino a poco tempo fa, ricevevo risposte piccate, mi veniva chiesto di pensare alla mia zona di competenza senza invadere le altre”. Uno sforzo congiunto, insomma, che richiede prima di tutto una certa elasticità mentale.

Da un punto di vista psicologico, l’approccio richiesto dall’adozione dei marginal gains sembra favorire componenti quali la fiducia e il rispetto, tanto in sé che nei confronti degli altri. Soltanto credendo in quello che si fa lo si può far bene, soltanto muovendosi da squadra e nell’interesse di quest’ultima poi la squadra vince. Come spiega Matthew Syed in un’intervista a Cycling Weekly, “Brailsford ha ribaltato il paradigma classico: invece di chiedersi cosa sapeva, si è concentrato su quello che ancora non sapeva; ha reputato possibile migliorare in quegli ambiti in cui era già forte, umile quanto basta per mettere da parte allori, orgoglio ed egocentrismo”.

In questo modo, l’apprendimento è costante e continuo. Anche l’eventuale fallimento assume un ruolo positivo perché scartando il superfluo si hanno più tempo, soldi ed energie per concentrarsi sul necessario. Si capisce allora quanto sia replicabile come modello, tant’è vero che nel corso degli anni la teoria dei marginal gains è stata adottata dal mondo del lavoro, della finanza, dell’istruzione scolastica.

Di esempi ce ne sono a bizzeffe e i più interessanti esulano dalla corsa in sé. I corridori, ad esempio, sono sempre stati interpellati e invitati ad esprimere le loro opinioni tanto sui materiali quanto sulla strategia in gara, senza che le loro parole cadessero nel vuoto: la dirigenza è realmente interessata a conoscere i loro pensieri a riguardo.

“Nessuno ha una risposta per tutto, ne siamo consapevoli”, affermava Michael Barry, uno dei senatori del primo Team Sky, al The Guardian.

“Se abbiamo un dubbio, una proposta o una considerazione siamo liberi di parlare: ci è stato fatto capire in più occasioni che il nostro parere conta e che talvolta può far cambiare le cose”. Certo, così facendo aumentano le responsabilità dei singoli, ma è il prezzo da pagare per raggiungere l’eccellenza.

E mentre il gruppo affronta le tappe del Giro d’Italia, del Tour de France e della Vuelta, alcuni membri dello staff del Team Sky si recano all’albergo in cui la squadra pernotterà per allestire a dovere ogni camera: la puliscono se la trovano sporca, accendono ionizzatore e deumidificatore se necessario, rifanno ogni letto con il materasso e il cuscino realizzati su misura per ogni corridore. “Il riposo è fondamentale nei grandi giri”, ha spiegato spesso Brailsford. “Cambiare ventuno alberghi significa cambiare ventuno materassi e ventuno cuscini, senza considerare l’umidità e la polvere che si trovano in ogni stanza. Noi ci siamo mossi per eliminare questi problemi”.

E poi ci sono i sedili del pullman realizzati sul modello di quelli degli aeroplani, le borracce col colore del tappo diverso a seconda del liquido che contengono, la borsa del freddo personalizzata per ogni corridore. Nemmeno gli altri membri dello staff, dai massaggiatori ai meccanici passando per i responsabili della comunicazione, sono trascurati perché tutti devono sentirsi a loro agio: solo così una squadra può rimanere serena, concentrata, affiatata.

Il Team Sky è anche la squadra che ha introdotto la pedalata defaticante sui rulli al termine di una corsa. “All’inizio ci prendevano tutti in giro”, ha ricordato Sean Yates al The Guardian. “Poi, dopo qualche tempo appena, lo facevano tutti. Per l’85% del suo tempo, il Team Sky fa quello che fanno le altre squadre. Non abbiamo un protocollo per tutto, ovviamente, ma ci piace implementare qualcosa ogni anno. Però la nostra forza è questa: realizzare un piano e farlo succedere”.

L’intero viene diviso in tante piccole parti e l’obiettivo diventa provare a migliorarle tutte, una ad una, con piccole azioni: un lavoro metodico e certosino che ritroviamo nella stupenda vittoria di Froome al Giro d’Italia 2018, un’impresa scientifica alla stregua di un record dell’ora. La storia del ciclismo britannico è cambiata per sempre, un 1% alla volta.

L’opinione di Bradley Wiggins

Se la teoria dei marginal gains avesse un volto, sarebbe quello di Bradley Wiggins. Dopo il quarto posto al Tour de France 2009, il movimento ciclistico inglese non poteva fare finta di niente. Non l’ha fatto. Wiggins è uno dei più grandi ciclisti inglesi di sempre, il primo a vincere il Tour de France, un fuoriclasse affermatosi ai massimi livelli tanto su strada quanto su pista – finché la Vuelta 2011 non è passata dal palmarès di Cobo Acebo a quello di Froome, Wiggins è stato anche il primo ciclista inglese a conquistare un grande giro. È soprattutto per merito suoche Sky ha deciso di investire massicciamente nel ciclismo; è stato lui il corridore più rappresentativo delle prime tre stagioni, capace di passare in una manciata di giorni dalla maglia gialla sui Campi Elisi alla medaglia d’oro nella prova a cronometro delle Olimpiadi di Londra.

Anche Wiggins, ovviamente, dovette calarsi nella realtà che Brailsford aveva plasmato. Ogni volta in cui c’era da caricare qualche bagaglio in macchina o sul pullman, ad esempio, Wiggins non si scomodava: chiunque sapeva che il capitano non doveva assolutamente stancarsi più del dovuto, rischiando magari uno strappo o uno stiramento alla schiena nel chinarsi o nel sollevare la valigia in questione; a quel punto arrivava un membro dello staff o sua moglie, Cath, e adempivano al loro dovere. Ne ha giovato, Wiggins, e nessuno può sostenere il contrario.

Tuttavia, il ritiro dal ciclismo pedalato gli ha dato la possibilità di esprimersi liberamente e non ha mai lesinato critiche e bordate all’indirizzo del Team Sky.

“Finché si è atleti, è fantastico avere sempre qualcuno a disposizione che fa le cose al posto tuo”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Tim Lewis.

“Col tempo, però, ci si rende conto che non va bene, che non è la cosa giusta da fare. Rischi di ritrovarti viziato, inadatto, in difficoltà quando dovrai provvedere in prima persona ai tuoi impegni, troppo fragile per fare qualsiasi cosa”.

Wiggins non si è limitato ad analizzare oggettivamente l’approccio, ma lo ha persino messo in discussione. “Credo che intorno ai marginal gains si sia formata un’aura eccessiva; non sono così decisivi come può sembrare. Ci sono molte persone che hanno fatto loro questa teoria per rivenderla e farsi un nome: Dave Brailsford è uno di questi. Ho sempre pensato che tutta quella roba fosse una montagna di spazzatura. Nel ciclismo professionistico contano poche cose: il corridore che sei, il talento che hai, come ti alleni. O sei bravo oppure non lo sei: ecco cosa conta”.

È lecito affermare che Wiggins abbia ripetutamente sputato nel piatto in cui ha mangiato – tanto e bene – per diverso tempo. Tuttavia, non è stato l’unico a criticare le parole e il lavoro di Dave Brailsford. Sono molte, infatti, le persone che credono nell’inutilità dei marginal gains; altre affermano che in fondo sono sempre esistiti; altre ancora, a metà tra il complottismo e il pessimismo, sono sicure che servano per coprire pratiche illecite.

La spietata ricerca dell’ovvio

“La spietata ricerca dell’ovvio”, così Michael Hutchinson ha definito la teoria dei marginal gains su Cycling Weekly. “Non c’è niente di nuovo, per dirne una, nel provare a migliorare la qualità del riposo notturno”, ha rincarato. Dello stesso avviso è anche Matthew Syed, lo stesso giornalista che in precedenza abbiamo visto elogiare lo sforzo intellettuale di Dave Brailsford. Syed può parlare con cognizione di causa: nel 1997, nel 2000 e nel 2001 ha vinto la medaglia d’oro nel tennis tavolo ai Giochi del Commonwealth, rappresentando la Gran Bretagna alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 e a quelle di Sidney nel 2000; in più, dopo il ritiro ha intrapreso un’ottima carriera giornalistica che lo ha portato ad approfondire ulteriormente la tematica sportiva: di marginal gains, infatti, si parla molto nel suo “Black Box Thinking”, libro uscito nel 2015.

“La teoria dei marginal gains non è nient’altro che l’idea di applicare il metodo scientifico per un miglioramento costante”, ha riassunto su Cycling Weekly.

Come ha fatto notare recentemente Tim Lewis sul The Guardian, “È difficile credere che il Team Sky abbia fatto la storia del ciclismo per merito dei marginal gains e non perché investono soldi in qualsiasi attività”. Nelle ultime stagioni il budget a disposizione del Team Sky si aggirava sui quaranta milioni di euro, più del doppio rispetto a quello che possono permettersi molte altre squadre del World Tour. La possibilità di ingaggiare corridori come Poels, Landa e Kwiatkowski, presenze fisse al fianco di Chris Froome sulle strade del Tour de France, sembra il miglior “marginal gains” di cui il Team Sky si sia mai avvalso.

Un approccio efficace, senza dubbio, ma talmente monastico da mandare in difficoltà più di un atleta: de la Cruz e Rosa non si sono più espressi sui livelli del passato, Intxausti non ha mai fatto parte del progetto, Kennaugh ha appeso momentaneamente la bicicletta al chiodo, Kwiatkowski ha dovuto staccare la spina dopo l’ultimo Tour de France “perché pedalare non era più divertente”. Il Team Sky – o il Team INEOS, cambia poco – e i marginal gains non sono alla portata di tutti e non è detto che sia un male.

Tuttavia, l’aspetto più delicato – e forse il meno dibattuto – è un altro: qual è il limite oltre il quale la teoria dei marginal gains diventa qualcos’altro? C’è un limite, etico, sportivo o giuridico? In più di una occasione il Team Sky ha dovuto affrontare situazioni spiacevoli, con Wiggins prima e con Froome poi. Il problema era sempre lo stesso: un uso vicino all’abuso delle tanto famigerate TUE, le Therapeutic Use Exemption che permettono l’assunzione di certe sostanze in determinati frangenti ed entro certi limiti. Per l’opinione pubblica – e non solo, a volte ci casca anche la stampa – è naturale associare al Team Sky le più disparate e malsane pratiche illecite. Secondo questa narrazione, dunque, i marginal gains diventano uno specchietto per le allodole, una storia affascinante raccontata per nasconderne altre, le più brutte, quelle che devono rimanere segrete.

Una visione che stona, però, con quello che riportava William Fotheringham sul The Guardiannel 2010. Fotheringham descriveva un ambiente rilassato e produttivo, tutt’altro che chiuso in se stesso. Si stupiva perché le porte delle camere d’albergo venivano addirittura lasciate aperte: “Non è la normalità”, scriveva allora. “Gli anni ’90 e lo scandalo della Festina avevano riscritto queste norme. Brailsford, però, sta mantenendo la parola data lo scorso anno: porte aperte, venite a vedere cosa facciamo”.

Di marginal gains non si parla più così spesso e le cause possono essere molteplici: lo strapotere economico del Team INEOS, ad esempio, che finisce per oscurare tutto il resto; magari abbiamo fatto l’abitudine ai trionfi e all’invadente presenza del Team INEOS tanto da non soffermarsi più sul resto; oppure ci siamo resi conto che di Team INEOS non ce n’è uno solo e che la teoria dei marginal gains non è una loro prerogativa esclusiva.

Un altro Team Sky

La Jumbo-Visma è la squadra più sensibile alle piccole innovazioni dopo il Team Sky. Nelle cronometro del Tour de France 2015, ad esempio, sfoggiarono dei body innovativi: apparentemente uguali a tutti gli altri, avevano invece una tasca interna all’altezza del fondoschiena nella quale i corridori inserivano il dorsale. Il vantaggio principale, ovviamente, era quello aerodinamico: rimanendo all’interno, il numero non sporgeva e non si rischiava, dunque, che la pressione dell’aria potesse spostarlo o allentarlo. L’aerodinamicità dell’atleta era pressoché totale.

Secondo una serie di test organizzati dall’azienda produttrice, la Nopinz, in una cronometro di quaranta chilometri percorsa a quaranta chilometri orari di media il vantaggio è di circa venti secondi: un margine tutt’altro che banale, nel ciclismo odierno. E infatti i risultati della Jumbo-Visma nella cronometro inaugurale del Tour de France 2015 furono eccellenti: van Emden chiuse al quinto posto, Kelderman al nono, Gesink all’undicesimo.

La Jumbo-Visma è stata associata ai marginal gains anche durante il Tour de France 2019, quando il De Telegraaf ha svelato che la formazione olandese usa una bevanda definita “miracolosa” a base di chetoni. I chetoni sono composti organici prodotti dal fegato in mancanza di carboidrati per bruciare grassi, ma l’ambiente scientifico non ha una posizione unanime in merito: secondo Kieran Clarke, il professore di Oxford che l’ha ideata, e Richard Plugge, il team manager della Jumbo-Visma, i vantaggi sono indiscutibili, non ci sono controindicazioni e non si può parlare di doping in quanto non fa – ancora – parte della lista delle sostanze vietate; secondo altre ricerche, invece, i vantaggi sarebbero minimi e i chetoni sarebbero più utili nella fase di recupero piuttosto che nell’avvicinamento alla prestazione.

Una voce fuori dal coro è quella di Anko Boelens, il medico sociale della Sunweb, il quale ha predicato calma e attenzione: “Penso che ci dovrebbe essere maggiore chiarezza riguardo gli effetti sulla salute degli atleti a lungo termine. Inoltre, ci sono dubbi riguardo l’efficacia. Ci sono anche studi che mostrano che ha effetti negativi sulle prestazioni sportive e che sarebbe utile solo al recupero. Voglio essere certo di non creare problemi ai nostri corridori”.

Un discorso simile è stato fatto per la stimolazione transcranica adottata dalla Bahrain Merida, un’altra pratica estremamente innovativa e controversa ma, almeno per ora, nella norma. Si tratta di una metodica non invasiva che aiuta il cervello ad esprimere un po’ di più l’enorme potenziale di cui è provvisto. “Ma non è doping cerebrale”, specificò subito il dottor Ugo Riba. “Grazie a questo strumento si può andare ad agire su diverse funzioni cerebrali richiamate dal gesto sportivo come la migliore gestione della fatica, l’aumento della rapidità e della precisione del gesto atletico e nel riposo dopo prestazioni particolarmente impegnative. Richiede una valutazione estremamente attenta e personalizzata su ogni atleta e ogni disciplina sportiva. Dobbiamo tenere in considerazione una vasta serie di fattori. Può addirittura incidere la forma del cranio, pertanto non lo si deve considerare un semplice copricapo”. Gli fece eco la dottoressa Geda: “Noi non facciamo niente di più di ciò che il cervello già fa, semplicemente facilitiamo la comunicazione nella corteccia celebrale”.

Una questione di supremazia

In tutti e tre i casi – dorsali, chetoni e stimolazione transcranica – la squadra che ha anticipato tutte le altre è stato ancora il Team Sky. La strategia a medio e lungo termine di Sir Brailsford è chiaramente quella di ottenere il predominio sportivo attraverso ogni mezzo ammesso, grazie anche – quindi – alla supremazia tecnica e a un budget ampio. In questa dimensione rarefatta che unisce sport, tecnica e business, il governo del dettaglio oltre il terzo decimale, che ha come scopo il risultato, può indirettamente avere anche altre conseguenze, come sfogare una nevrosi da primazia, o dare un freno al senso di colpa. La spinta al miglioramento continuo è connaturata nell’uomo, soprattutto quello sportivo, ed è sicuramente benefica fintantoché la fede scientista non prende il sopravvento: se fossimo in Rocky IV staremmo parlando del valore sportivo di Ivan Drago…

Nell’era della tecnica, processi del genere sono normali, quasi naturali. Che siano poi anche un progresso, sarà il tempo a dirlo. Il ciclismo poggia la sua natura su un attrezzo – la bicicletta, una tecnologia in sé – che non viene aggiornato praticamente da quando è stato inventato più di un secolo fa, ma che viene periodicamente “migliorato”, secondo scelte dei produttori. E mentre il dibattito tra reazionari e progressisti s’infuoca sempre di più, si continua a camminare sul filo del rasoio: vedremo se il filo si spezzerà, se qualcuno si taglierà, se il ciclismo – quale? – sopravviverà.

D. BERNARDINI

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