Lo sport nelle scienze sociali: da chimera a realtà
Marco Pasini (dir.)
M@gm@ vol.11 n.1 Gennaio-Aprile 2013
Emanuele Isidori
emanuele.isidori@uniroma4.it
Dirige il Laboratorio di pedagogia generale presso l’Università di Roma “Foro Italico” dove, oltre all’omonima disciplina, insegna anche filosofia dello sport e dell’educazione olimpica.
Introduzione
Lo sport rappresenta nella cultura contemporanea una palestra di riflessione sui problemi etici e culturali che la società prospetta ed è diventato oggi un oggetto del dibattito filosofico sviluppato sia in prospettiva sociale che educativa. La filosofia contemporanea ha “riscoperto” – se teniamo conto del fatto che nella filosofia e nella cultura greca antica lo sport e l’agonalità avevano un ruolo centrale –, le sue profonde radici “sportive”. È emblematica a questo riguardo l’immagine dell’atleta-filosofo incarnata dal lottatore Platone e così percepita nell’antichità, come attestano le più antiche raffigurazione scultoree del filosofo, come la sua erma conservata nel museo dell’Università di Berkeley (Miller, 2009). La “filosofia dello sport” è diventata, infatti, una vera e propria branca della filosofia come scienza, con un suo riconoscimento a livello internazionale (Reid, 2012), che tarda però ad arrivare nel nostro paese (Isidori, Reid, 2011).
Lo sport rappresenta una straordinaria occasione di riflessione filosofica ed educativa per la donna e l’uomo della contemporaneità. A partire dall’Ottocento si è assistito ad una progressiva sportivizzazione della cultura ed all’assurgere dello sport a tema centrale del nostro tempo, come aveva già messo in evidenza il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1944). Lo sport, con le sue implicazioni, culturali, sociali, filosofiche ed educative appare come un “gigante” del nostro tempo – l’espressione è del filosofo spagnolo dello sport José Maria Cagigal (1981) – che deve essere anatomizzato, scomposto ed analizzato nelle sue parti e nei suoi gangli fondamentali per essere compreso in tutta la sua straordinaria potenza sociale ed onto-ontica, perché legata, da una parte, ad una dimensione propria dell’esistenza individuale di ogni essere umano e, dall’altra, ad una dimensione etica “radicale” (in senso marxiano) dell’uomo umano.
Quello che già aveva compreso Cagigal era che lo sport influisce sugli stili di vita, i modi di pensare e gli atteggiamenti mentali delle persone; ed il fatto che esso rappresenti un sistema etico ed educativo in grado di influire profondamente sulla società rende necessaria una lettura più attenta e meno superficiale (perché espressa molto spesso da discorsi del tutto retorici costruiti su facili e banali truismi o errate convinzioni e pregiudizi) del fenomeno sportivo in chiave filosofico-educativa.
Questi truismi e queste banalità che si concretizzano in generici assunti metafisici ed affermazioni di scarso valore sia teoretico che pratico, partono da una errata convinzione: quella che vuole che lo sport sia, a priori, una pratica umana in grado di generare, di per se stessa, valori ed un miglioramento delle relazioni umane e sociali tra le persone che vivono in una comunità.
1. Lo sport tra valore e antivalore nella prospettiva della filosofia dell’educazione sociale
Il punto di partenza di questa nostra analisi filosofico-sociale è, invece, che lo sport non rappresenta in se stesso un valore, una pratica “buona” e “salutare” (non solo in termini “fisici” ma soprattutto in termini sociali) e non si identifica neppure in un bene assoluto. Il suo valore per la donna e per l’uomo non si trova in se stesso ma negli obiettivi e nelle finalità che esso può perseguire in un quadro di possibili funzionalità che può svolgere. Questi obiettivi e queste finalità sono sempre date dall’educazione.
Il “bene” dello sport e la sua straordinaria portata sociale non sta dunque in se stesso ma nella finalità educativa che intende perseguire e negli obiettivi educativi che, nell’ambito di questa finalità, può conseguire. Lo sport è uno strumento che l’educazione può utilizzare per perseguire i suoi scopi ed i suoi obiettivi educativi. Senza questo uso funzionale all’educativo, lo sport non potrebbe essere né un valore né un bene per l’umanità e la società.
In termini di filosofia dell’educazione si potrebbe dire che lo sport di per sé stesso “insegna” ma non “educa”; può sviluppare competenze, attitudini, comportamenti, convinzioni ed abilità (che possono anche essere eticamente e moralmente discutibili o inaccettabili) nei soggetti che lo praticano, ma non trasmettere valori. Visto in questa luce, lo sport rileva la sua “subalternità” rispetto all’educazione, in quanto è quest’ultima a dare sempre il valore e la configurazione di “bene” per l’uomo e per la donna a questa pratica. Lo sport, quindi, rappresenta, come altri dispositivi sociali, uno strumento che l’educazione ha a disposizione per il conseguimento del bene comune.
Va detto, tuttavia, che lo sport presenta in se stesso un implicito educativo che gli deriva dalla sua stessa origine. L’analisi storico-filosofica ha rivelato come lo sport nasca in origine con una finalità educativa e religiosa (si pensi all’origine delle antiche Olimpiadi o degli altri agónes atletici nella cultura greca) concretizzata in una funzionalità volta alla risoluzione pacifica del conflitto (Reid, 2006).
Lo sport non è di per se stesso un valore; non genera un miglioramento della vita comunitaria ma è l’educazione a generare tutto questo. Lo sport rappresenta, dunque, quello che in una classificazione dei valori potrebbe essere definito come un valore “misto”, che può essere o non essere un bene per l’uomo. È l’educazione a trasformare questa pratica in un dispositivo sociale e psichico in grado di generare valori. A nostro parere, l’approccio decostruzionista può essere molto utile per analizzare più in profondità questa “ambiguità” dello sport ed a capirne meglio la sua natura educativa e la sua finalità sociale.
2. Lo sport come phármakon: una prospettiva decostruzionista
Da un punto di vista concettuale e filosofico, il concetto di sport appare simile a quello greco di phármakon. Per i greci il termine phármakon indicava sia il “veleno” che il “rimedio”, l’“antidoto” e la “cura” al male ed al danno che quel veleno procurava all’uomo. Questo concetto è stato approfondito dal filosofo francese Jacques Derrida, che ne ha fatto uno dei cardini della sua filosofia decostruzionista. Peraltro Derrida ha approfondito questo concetto in un testo molto interessante dal punto di vista della nostra analisi filosofica socio-educativa, perché ne ha parlato nel contesto dell’uso delle droghe e del doping nello sport (Derrida, 1995).
Leggendo il Fedro di Platone, Derrida aveva capito che, al fine di evitare la questione della indecidibilitàdella traduzione del termine phármakon che compare nel testo, i traduttori che nel corso del tempo si erano avvicendati sull’opera platonica, avevano risolto il problema dell’“impossibilità” della sua traduzione ricorrendo ad un meccanismo teso a decidere quale fosse il senso più opportuno (o corretto) del termine (traducendolo o come “veleno” e “male” oppure come “rimedio” e “cura”) sulla base del contesto di un dato passaggio o secondo l’intenzione dell’autore (Lucy, 2004, p. 90).
L’analisi decostruzionista mette in evidenza come il concetto di sport sia assimilabile al concetto di phármakon greco e richieda, per essere compreso, un procedimento simile a quello utilizzato dai traduttori del Fedro platonico: vale a dire, sulla base del fatto che è sempre il contesto a dare il significato ed il senso al concetto. Sulla base di questa analisi, quindi, lo sport rappresenterebbe una vox media, vale a dire un termine che di per sé non presenta un significato definito ed univoco ma neutro, né positivo né negativo, con una stessa distanza tra il polo del significato positivo e quello negativo. Questa equidistanza non permette di attribuire al termine un unico significato, che pertanto dovrà essere di volta in volta ricavato dal contesto. Tuttavia, partendo dal significato e dal valore intermedio (né positivo né negativo) del termine possono essere sviluppati due poli semantico-concettuali, positivo e negativo, sempre presenti, anche se attestati in proporzioni progressivamente disuguali, fino alla netta prevalenza (anche se potrebbe non essere sempre esclusiva) di uno dei due poli.
In quanto termine-concetto che “funziona” come quello di phármakon, lo sport non rappresenta di per sé né un concetto positivo e neppure negativo, ma si muove sempre orientandosi tra due poli di significato, uno positivo ed uno negativo, il cui orientamento dipende sempre dal contesto e dall’intenzionalità-finalità che, attraverso l’interpretazione e l’azione, si vuole dare ad esso.
Nel caso dello sport, è il contesto educativo e l’intenzionalità legata a quest’ultimo, determinata da una consapevolezza e da una coscienza sviluppata da una interpretazione intenzionalmente educativa del soggetto, a dare alla pratica sportiva quello che riteniamo sia il suo significato ed il suo valore intrinseco positivo, socialmente condiviso e accettato, perché volto al bene della comunità ed al miglioramento delle relazioni sociali tra i suoi membri. Questo valore viene spesso invece solitamente attribuito “a priori” (talvolta solo in forma retorica senza avere una minima consapevolezza dei passaggi logici e filosofici che portano all’attribuzione di tale valore) alla pratica sportiva.
La decostruzione mostra che il “bene” ed il “male” nello sport convivono sempre, così come valori e disvalori, e sta al contesto ed all’interpretazione di coloro che agiscono all’interno della cornice sociale e culturale di questa pratica (atleti, praticanti, allenatori, arbitri, genitori, insegnanti, responsabili di enti e federazioni sportive, tifosi, ecc.) farli intenzionalmente emergere (intendiamo i valori “puri” e “positivi” dello sport).
Nello sport possiamo dunque ritrovare la dicotomia tra abilità e virtù, tra téchne e areté di cui parlava Aristotele. Il valore (etico e morale) di una abilità (o di una competenza) non sta in se stessa ma nei fini che essa intende perseguire e per cui viene utilizzata. Nello sport le abilità e le competenze (di tipo tattico, strategico o atletico ad esempio) dimostrate nella competizione conducono alla vittoria. Tuttavia, Dal punto di vista filosofico, ad esempio, non possiamo prendere la vittoria o il successo nella competizione o nella gara sportiva come prova della virtù e quindi come un bene per l’umanità e la società.
Insomma, lo sport e la competizione (forma nella quale esso si esprime) non sono di per sé valori – come si diceva – ed i valori o il comportamento morale che lo sport e la pratica sportiva possono generare non sono mai il risultato della mera applicazione di teorie di apprendimento, regole o principi (McFee, 2004). Tali comportamenti sono invece il risultato-prodotto dell’esperienza del soggetto, che dovrà essere – più o meno implicitamente, tacitamente o esplicitamente, ma sempre intenzionalmente – volta all’educativo.
3. Sport ed educazione morale
La potenzialità dello sport come educazione morale risiede nel dare alle persone la possibilità di lavorare con concetti morali quali “onestà”, “equità” e “giustizia”, “imparzialità” (fairness), nel contesto vivo della pratica, sperimentando questi stessi concetti, confrontandosi con coloro che non riescono ad agire in base ad essi ed esplorando anche il proprio eventuale insuccesso nel seguirli (Reid, 2012, p. 150).
La possibilità etico-morale dello sport sta nel fatto che esso viene praticato in un ambiente relativamente contenuto, controllato e supervisionato, in cui queste possibilità possono facilmente emergere, essere decostruite, sperimentate ed esplorate. Lo sport è quindi un laboratorio morale in cui le astratte regole e gli astratti valori morali della società trovano senso in contesti concreti. In questo contesto controllato qual è appunto lo sport come sistema, si possono imparare regole morali applicandole a situazioni concrete della vita (McFee, 2004). Dalla pratica e nella pratica sportiva non si imparano solo regole ma il modo in cui rapportarsi con le regole e come comportarsi in accordo con i principi etici e morali per il rispetto dei quali vengono stabilite le regole.
Non è lo sport a generare valori ma è il contesto del rispetto delle regole a permetterne l’attuazione ed a rivelarne l’acquisizione attraverso i comportamenti dei soggetti. Lo sport è un laboratorio esperienziale di tipo sociale che permette di apprendere realmente, nell’esperienza, i valori del vivere personale e sociale.
Il problema dello sport è che generalmente esso non viene compreso in questa sua potenzialità morale ed etico-sociale; raramente si discute sulla funzione educativa dello sport e si riconosce nell’educativo l’essenza stessa dello sport. Gli allenatori, i tecnici sportivi e gli stessi esperti di scienze dello sport non vengono mai formati come educatori morali e non vengono quasi mai sensibilizzati ad avere una coscienza educativa del loro ruolo. Neppure gli atleti sono considerati degli educandi o formandi. Gli atleti (ma questo vale anche per gli allenatori ed i tecnici sportivi), sono spinti a vincere e valutati solo ed esclusivamente sulla base delle vittorie conseguite. Questa dimensione si è acuita e va acuendosi sempre più nella società contemporanea dominata dall’ideologia totalitaria del capitalismo assoluto.
Ciò che sostanzialmente manca in molti strati della società è un atteggiamento etico verso lo sport e una sostanziale prospettiva di lettura educativa delle sue potenzialità; lettura senza la quale lo sport non può mai in alcuno modo ed assolutamente essere considerato un “valore” positivo per l’umanità.
Si potrebbe dire che lo sport è oggi un laboratorio di educazione sociale che però aspetta ancora i suoi pedagogisti ed i suoi filosofi sociali. O meglio, manca ancora nello sport una filosofia prassica, ampiamente diffusa, collegata con una pedagogia critica decostruzionista di tipo emancipativo ed una sociologia non descrittiva ma interventista (critica anch’essa e volta alla trasformazione della società) in grado di far emergere la componente educativa dello sport nella quale risiede la sua straordinaria potenzialità di promozione dei valori morali ed etici che permettono la socializzazione, l’inclusione sociale e la convivenza pacifica dei membri della società.
4. Lo sport come laboratorio di riflessione socio-educativa
Lo sport rappresenta, dunque, una palestra di riflessione filosofica “totale” sui paradossi e le contraddizioni della società globalizzata, perché ne ripropone sostanzialmente i problemi su larga e piccola scala. Il concetto di sportivizzazione della società è legato al fatto che lo sport è diventato non solo un fenomeno “totale” ma “totalizzante”, che è entrato in ogni contesto del nostro vivere quotidiano, nei nostri modi di pensare e nei nostri stili di vita. Lo sport è un fenomeno culturale totale, che configura un agire umano profondamente legato ad altri modelli culturali al punto che risulta difficile stabilire quando comincia e finisce un comportamento sportivo (García Ferrando, Lagardera Otero, 1998). Si tratta di un comportamento ben adattato alle esigenze della vita attuale che si è trasformato in tanti modelli di comportamento generale in tutte le società (si pensi al concetto di “competizione sul quale ha la pretesa di fondarsi l’etica dell’ideologia capitalista e liberista). A partire dal XX secolo, lo sport ha profondamente trasformato i costumi sociali ed i comportamenti corporei tradizionali, finendo per sportivizzare gusti estetici, comportamenti, abiti e costumi sociali, modi di pensare e di giocare, ecc., penetrando profondamente nel tessuto sociale e culturale di tutti i gruppi umani (basta pensare all’abbigliamento sportivo ed alla sua influenza su certi stili di vita e di comportamento quotidiano che ricercano la salute e l’“attivismo” fisico permanente).
Il filosofo ed il pedagogista sociale, nella loro analisi dei problemi dello sport, debbono pertanto partire sempre dal presupposto che le società complesse, le società della postmodernità (o se si preferisce dell’ipermodernità) sono società sportivizzate e che lo sport rappresenta sempre una forma (che si trasforma in una esperienza in ogni soggetto) di educazione informale; vale a dire un insegnamento che non si vede (amplificato anche dai mezzi di comunicazione di massa) ma che agisce sulle coscienze delle persone, veicolando, più o meno tacitamente, valori e disvalori che influenzano i comportamenti delle persone ed incidono sulle relazioni sociali dei membri della comunità.
A partire dal Novecento, grazie all’elaborazione culturale e filosofico-educativa compiuta da De Coubertin, lo sport ha influenzato il sistema dell’etica occidentale ed ha finito in un certo senso per costruirla, veicolando alcuni principi propri della paidéia atletica. Per gli antichi greci, lo sport era fondamentalmente una competizione, un agón, un incontro tra persone che si confrontavano l’una con l’altra nel rispetto dell’uguaglianza dinanzi alle regole e per dimostrare il loro valore dinanzi alla divinità ed alla comunità, secondo il principio dell’essere migliore rispetto agli altri.
Alcuni principi dell’agón possono essere ritrovati nel concetto stesso di democrazia che i Greci hanno consegnato alla tradizione culturale dell’Occidente; vale a dire: uguaglianza dell’atleta davanti alle leggi ed ai regolamenti della competizione; pari opportunità per tutti i cittadini di partecipare alle gare (nei limiti della società del tempo); garanzia del controllo e della prevenzione o della punizione dei comportamenti scorretti ed eticamente deprecabili.
Lo sport era per i Greci un’agorá socio-culturale, emanazione di un sistema educativo intenzionalmente volto a favorire un “incontro” e non uno “scontro” tra persone che, pur appartenendo a sistemici politici e sociali diversi, si riconoscevano in una comune identità. In questo senso lo sport, attraverso il sistema agonale, permetteva la risoluzione pacifica dei conflitti, la prevenzione della violenza e lo scarico dell’aggressività (Isidori, 2012).
Nello sport i Greci trovavano la casa comune, l’éthos, per tutte le genti del loro popolo. Per questo anche oggi lo sport è per sua natura legato – e non va mai dimenticato – ai riti dell’ospitalità e del dono, dell’incontro, del reciproco scambio e della gestione dei meriti e delle ricompense all’interno di un’economia che ricerca oggi (come nella Grecia antica) un equilibrio tra le parti, nel nome di una ricomposizione pacifica delle fratture generate dai contrasti sociali e dagli scontri tra identità soggettive forti. A ben vedere, del resto, è da questo scontro tra identità soggettive “forti” che si genera la violenza sociale in genere, e quindi la stessa violenza nello sport; non dello sport come pratica, che è invece sempre strutturalmente pensata – sin dalla sua origine – come intenzionalmente educativa ed etica.
5. La prospettiva socio-educativa dello sport “debole”
L’approccio decostruzionista allo sport mette in evidenza la necessità di ripensare questa pratica attraverso categorie “deboli”, in grado cioè di destrutturare radicalmente le identità forti che lo sport, ultima delle grandi narrazioni forti dell’Occidente, in modo contraddittorio e paradossale ancora presenta e su cui basa la sua struttura di pratica sociale e culturale ancora non inclusiva. Basta pensare al modo in cui viene concepita comunemente nella società di oggi la competizione e la gara sportiva.
La gara e la competizione sportiva vengono viste come performance sociale nelle quali degli attori sociali (gli atleti, ad esempio) si scontrano per affermare la loro superiorità come individui o come gruppo. In questi attori sociali tendono ad identificarsi grandi masse di soggetti interessate ad affermare, attraverso l’identificazione con tali attori, la superiorità (non solo in termini di abilità e competenze) del loro “io” individuale o di gruppo su altri “io” – anch’essi individuali o collettivi – visti come “alterità” e “diversità” costruite attraverso una logica oppositiva (o per meglio dire contra-oppositiva) che ha il suo punto di partenza nell’affermazione di una identità forte.
Nazionalismi, affermazione di appartenenze etniche ed identità di gruppo, desiderio di rivalsa, di primeggiare e dimostrare la propria superiorità in quanto soggetto individuale, gruppo o nazione, sembrano rappresentare oggi le caratteristiche principali dello sport contemporaneo. Lo sport appare concepito dalla società nei termini di una contrapposizione e di uno scontro tra identità forti dei soggetti di qualsiasi natura essi siano (individuale o gruppale).
La metafora della battaglia domina la cultura sportiva contemporanea (Dal Lago, 1990). Questa contrapposizione genera violenza e scontro, perché trasforma l’aggressività interna (e finalizzata alla sopravvivenza psicofisica) alla competizione ed alla gara sportiva (giustificabile, ad esempio, entro certi limiti, come reazione dell’atleta a situazioni di stress logorante) in una aggressività strumentale, non controllata, volta a recare danno all’altro; una aggressività che talvolta finisce per degenerare in una violenza strumentale che ha l’obiettivo di recare danno e distruggere l’avversario.
Nello sport le regole servono per far sì che l’aggressività interna della competizione non si trasformi in aggressività strumentale e degeneri nella violenza, che nega di fatto i valori umani e sociali sui quali si fonda la dignità della persona e la convivenza nella vita comunitaria.
6. Sport ed educazione: un binomio sociale inscindibile
Lo sport evidenzia la necessità di una vigilanza etica e di un controllo socio-pedagogico costante, in quanto esso rappresenta un sub sistema-sociale fondamentale della società stessa, ormai sportivizzata e non più concepibile in termini “a-sportivi”. Una funzione di vigilanza su questo sub-sistema dovrebbe essere svolto dalla filosofia dell’educazione sportiva. Si tratta di una funzione sociale ed al tempo stesso pedagogica di tipo critico finalizzata non solo all’osservanza del rispetto delle regole da parte dei praticanti ma anche all’insegnamento di queste modalità di rispetto nei suoi fruitori. Questa filosofia educativa e sociale dovrebbe evidenziare, ad esempio, come spesso i comportamenti violenti nello sport siano originati dall’uso di un linguaggio aggressivo (basta leggere un comune articolo di giornale o ascoltare il commento di una partita di calcio alla radio o alla televisione) che ricorre all’uso di parole e metafore tratte dal discorso bellico.
Soltanto concependo lo sport in chiave “debole”, indebolendo cioè la sua struttura di pratica sociale radicata in una identità del soggetto “forte” che si contrappone all’altro da sé (ad esempio, in termini di maschile/femminile; normalità/anormalità; vittoria/sconfitta, ecc.), si può pensare di trasformare gli sport ed il sistema sportivo in pratiche realmente inclusive ed in un sistema educativo in grado di rispondere alle esigenze di integrazione sociale e di convivenza democratica prospettate dalla società complessa (o se si vuole postmoderna o ipermoderna) (Isidori, 2012).
Ripensare lo sport sulla base di categorie deboli (concependo, ad esempio, la competizione sportiva come una co-opetizione, un confronto-incontro tra “identità solidali”), prospetta dunque una reinterpretazione ermeneutica dello sport su base de costruttiva.
Questa reinterpretazione permette di ricondurre lo sport alla sua radice di pratica “agonale”, legata cioè ai valori dell’agorá, dell’incontro, del dialogo, del confronto e della pratica viva della democrazia nella sua applicazione pratica. Lo sport ha probabilmente influito sull’origine e sullo sviluppo del concetto di democrazia nella cultura greca e quindi nella cultura europea. A ben guardare, infatti, se si esaminano le antiche descrizioni delle pratiche agonali nella cultura greca (Miller, 2004) si può constatare come la democrazia ed il suo sistema sia di fatto un agón in parole istituito con lo scopo di risolvere concretamente il conflitto sociale, prendendo decisioni sulla base del principio regolativo e bilanciato dell’equità (non della giustizia).
Analizzando l’origine degli antichi giochi greci si può constatare come lo sport fosse già nell’antichità connesso con i riti sacri dell’ospitalità e della gara; con riti nei quali lo “straniero” diventava un ospite ed un compagno con il quale era possibile confrontarsi nel nome del perseguimento di un comune obiettivo; principalmente: la dimostrazione del proprio valore nei confronti della comunità; il rispetto dei valori sociali; la testimonianza della propria devozione alle entità spirituali superiori.
Lo sport è più antico della stessa filosofia ed esso ha influenzato alcuni procedimenti propri della metodologia filosofica (la procedura ermeneutico-dialogica, ad esempio). Gli antichi avevano compreso le potenzialità educative e sociali dello sport ed avevano fatto di questa pratica una parte integrante della loro paidéia. Il lungo oblio che ha colpito lo sport e l’educazione fisica nella cultura occidentale nasce fondamentalmente da un malinteso della cultura platonica da parte di un certo filone dell’ascetismo cristiano, che ha poi influenzato il cristianesimo medioevale, dando origine a quella dicotomizzazione mente-spirito/corpo ed a quella svalutazione del corpo, dell’attività fisica e delle sue manifestazioni nella prospettiva ludica ed agonale, che sarà una costante nella cultura premoderna e moderna e che ancora permane, talvolta senza che ce ne possiamo rendere conto, nella nostra [1].
Lo sport è morto (o forse sarebbe meglio dire “entrato” in un lungo letargo) nella cultura occidentale proprio quando esso è stato “staccato” dai valori sociali, religiosi, educativi per formare ai quali esso era nato e che ne rappresentavano la linfa vitale. Non è un caso che quando De Coubertin vorrà far rinascere, all’alba del XX secolo, lo sport nella sua dimensione agonale, dovrà compiere una operazione di riallacciamento con tali valori, ricreandone e reinventandone di nuovi. Non è quindi possibile pensare sia dal punto di vista filosofico che sociologico lo sport al di fuori di una prospettiva educativa e pedagogica che non leghi lo sport ai valori umani.
La cultura italiana sembra ancora ignorare l’idea che possa esistere un “filosofo in tuta”. Su questa idea pesa ancora tutto il pregiudizio tipico della cultura di matrice idealista. Va detto, tuttavia, che l’idea che contrappone la cultura sportiva a quella filosofica e intellettuale è molto antica, e può essere ritrovata anche nella cultura classica. L’opinione che lo sport sia nemico della riflessione e dell’attività intellettuale è ancora molto diffusa tra gli intellettuali ed in molti strati della società.
Il “filosofo in tuta” dovrebbe essere, in realtà, un filosofo sociale dell’educazione sportiva che aiuta le diverse scienze sociali e bio-mediche a fornire conoscenze che permettano, nello sport, il passaggio dalla teoria alla prassi e contemporaneamente alla pratica. Vale a dire, quel passaggio che parte, ipoteticamente, dal quadro dei valori metafisici e astratti ed arriva alla pratica realmente agita ed esistenzialmente vissuta di questi valori nella quotidianità da parte di tutti gli agenti (sociali o educativi che siano) dello sport (atleti, federazioni, famiglie, associazioni, club, tifosi, ecc.).
Scollegare lo sport dai valori sociali e dall’educazione significa decretarne la morte e svuotare questa pratica del suo significato e del suo senso più autentico. Per questo è necessario tenere sempre vivo questo legame; ed il filosofo dello sport, insieme al pedagogista sociale, possono vigilare per far sì che lo sport non si scolleghi dai valori, la cui attuazione è resa possibile soltanto dall’educazione, che influenza e determina la socializzazione nel contesto sportivo. Questo sistema di vigilanza è rappresentato dall’etica dello sport, la cui elaborazione teorica dovrebbe essere compiuta dalla filosofia e la trasmissione dei suoi contenuti dalla pedagogia.
Sia la filosofia che la pedagogia hanno pertanto un compito decostruttivo nei confronti dello sport e della sua etica; un ruolo ermeneutico di comprensione-interpretazione dei suoi significati nel loro farsi interno alla sua struttura, nella prospettiva della scelta di soluzioni eque e rispettose dell’umano nel caso in cui ci si imbatta nelle contraddizioni e nei paradossi che la pratica sportiva in quanto sub-sistema sociale complesso può comportare.
Sia la filosofia che la pedagogia come scienze critiche dell’agire sociale ed educativo sono impegnate nell’attuare quel passaggio dalla teoria alla prassi dei valori dello sport che permettono di orientare l’agire sportivo [2] verso un agire etico, preludio di un miglioramento della vita comunitaria.
Conclusioni
De Coubertin sosteneva che lo sport ed i suoi problemi, che per lui erano sintetizzati nell’Olimpismo e nel suo sistema culturale, erano una questione che doveva essere lasciata solo ai filosofi ed agli insegnanti/educatori; è a loro che spettava, secondo il barone francese, prendersi cura, implementare e risolvere i problemi della pratica sportiva (De Coubertin, 2000, p. 456).
In conclusione, riteniamo sia necessario ancora una volta sottolineare con forza che i problemi dello sport sono fondamentalmente problemi di natura filosofica e socio-pedagogica; mentre oggi le scienze filosofiche, sociali e pedagogiche vengono sistematicamente marginalizzate nello studio dello sport, nel nome di una errata interpretazione “scientifica” positivistica della pratica sportiva, che continua ad essere vista solo nella sua parziale dimensione di rendimento e di tecnica/comportamento corporeo.
Pertanto, per concepire realmente lo sport nella prospettiva di un autentico strumento educativo e di miglioramento della vita sociale, è necessaria una vera e propria rivoluzione etica e culturale della nostra società. Lo sport, infatti, in quanto sottosistema della società, rappresenta lo specchio dei suoi valori e non solo ne incarna (come già si è detto) i difetti e le contraddizioni ma anche le buone prassi; e questo deve essere sempre compreso attraverso un processo di decostruzione continua dei significati che la pratica sportiva prospetta. Lo sport, del resto, in quanto pratica che coinvolge il corpo, il gioco ed il movimento in una unitarietà indissolubile, rappresenta un universale culturale. Esso è legato alla dimensione esistenziale dell’uomo e del suo esser-ci e possiede le potenzialità per assurgere a sistema ed a modello etico per la società, a patto, però, che si resti sempre vigili, attraverso l’educazione, sull’elaborazione e sull’attuazione dei suoi valori, come De Coubertin suggeriva e sognava per l’umanità futura.
Bibliografia
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Note
1] La svalutazione del corpo da parte della filosofia e della teologia cristiana che caratterizza tutto il medioevo e la cultura moderna è stata causata soprattutto da una errata interpretazione dei passi in cui Platone, riferendosi alle dottrine orfiche, afferma che il corpo è il séma (tomba) dell’anima; vale a dire un “elemento” che si identifica in qualcosa che deve essere sempre rimosso e purificato (Gorgia, 493a). Si tratta di una teoria che di fatto non era platonica ma apparteneva alla cultura orfica. A ben guardare, infatti, lo stesso Platone afferma, lasciando intendere di non condividere questa teoria, che il corpo può essere definito come il “segno” (che in greco si dice anch’esso séma, termine legato al verbo semáinen, che ha il significato di “mostrare”, “indicare”, “significare”) dell’anima (la psyché era per gli antichi greci il principio vitale dell’uomo); cfr. Cratilo, 400b-c. Si sa con certezza che l’Orfismo era la religione parallela a quella ufficiale del mondo greco-romano ed essa ha notevolmente influenzato il cristianesimo delle origini, risultando tra le componenti culturali responsabili dello sviluppo della matrice ascetica della religione cristiana, responsabile della mortificazione e della svalutazione del corpo (Isidori, 2011).
2] Per agire sportivo intendiamo un agire comunicativo ed al tempo stesso educativo volto al cambiamento migliorativo e trasformativo delle pratiche sociali che vede nello sport lo strumento etico ed il mezzo per la realizzazione di tale cambiamento in tutte le sfere dell’umano.