Carol Dweck, professoressa alla Stanford University, è ormai una celebrità nel campo della psicologia sociale grazie al successo delle sue ricerche sulla personalità umana. Il più grande passo in avanti lo ha compiuto quando è finalmente riuscita a lasciarsi alle spalle una gloriosa tradizione accademica, abituata a porsi domande come “Intelligenti si nasce o si diventa?”, per concentrarsi, invece, sul potere delle nostre convinzioni: il potere che queste hanno su di noi e quindi il potere che esercitano su cio’ che ci circonda. In genere per una serie di motivi che non spiego qui, noi non abbiamo nessuna consapevolezza di queste convinzioni o credenze e sono loro a condizionare pesantemente quello che vogliamo e le nostre chance di ottenerlo, formando la nostra mentalità e definendo il modo in cui affrontiamo tutte le situazioni , dal lavoro alle relazioni, dallo sport all’educazione dei figli e altro. Carol Dweck ha portato avanti una ricerca che ha mostrato l’ esistenza due mentalità opposte che possono plasmare , influenzare le nostre scelte e ha dimostrato che è possibile cambiare la propria mentalità. Le più recenti scoperte delle neuroscienze hanno sì evidenziato l’importanza della componente genetica nella genesi di molte qualità umane, ma anche che gli stimoli ambientali sono altrettanto determinanti, proprio perché necessari per permettere l’ espressione piena delle potenzialità genetiche. Aldilà del fatto che le qualità umane siano innate o acquisite, la convinzione implicita o esplicita che ogni individuo ha in merito — che esse siano innate o, al contrario, la convinzione che siano acquisite — è sufficiente a condizionare in modo decisivo il suo comportamento, le sue performance, la sua vita.
Nel primo caso, si parla di fixed mindset (mentalità statica), nel secondo caso di growth mindset (mentalità dinamica).
Mentalità statica
Le persone con il cosiddetto fixed mindset (mentalità statica) tendono a credere nel concetto di talento, definito come una dote innata, una qualità straordinaria che o si ha o non si ha, qualcosa che si eredita alla nascita o al massimo che si può acquisire una volta per tutte nei primissimi anni dell’infanzia.
Chi ha questa convinzione tende a vivere ogni competizione, ogni performance, ogni caso della vita in cui è richiesta una prestazione specifica — dalla partita di calcetto con gli amici al colloquio di lavoro — come una prova del fuoco, un’occasione in cui deve dimostrare di avere talento. La pressione sociale, reale o presunta, è molto sentita dal soggetto che adotta questa mentalità, e ogni situazione è vissuta come un’esposizione al giudizio altrui: avrò successo o fallirò? Farò la figura dello scemo o riuscirò a sembrare intelligente? Verrò accettato o rifiutato? Vincerò o perderò? Del resto, sono svariati i contesti sociali in cui vengono premiate le supposte doti naturali — contesti sociali che premiano la cultura fixed mindset. Mai sentito parlare di università che “selezionano talenti”, o di aziende che “assumono talenti”? O di talenti sportivi? Che cosa succede, allora, quando qualcosa va storto per chi ha una “mentalità statica”? Quando una performance non riesce, quando si commette un errore, quando si perde una partita? Se il talento è innato e ogni performance è una prova in cui dimostrare di avere talento, il fallimento è lo scenario peggiore che gli individui con il fixed mindset possano immaginare. Se fallisci la prova, dimostri di non avere talento — se non hai talento, non ci puoi fare niente. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, perché una delle più evidenti conseguenze di questa mentalità è la tendenza a evitare le sfide. In particolare, chi è già stato riconosciuto come un talento — magari da genitori che hanno insistito molto su un certo tipo di giudizio nei suoi confronti già da molto piccolo, cercherà dopo un successo di non esporsi a un nuovo giudizio che potrebbe falsificare il precedente. Davanti agli ostacoli, le persone con una “mentalità statica” tendono a fuggire, a mettersi sulla difensiva, a rinunciare facilmente: tutto fuorché mettersi alla prova, se mettersi alla prova può voler dire rischiare di dimostrare di non avere talento. Un’altra importante conseguenza si manifesta nel modo in cui viene valutato lo lo sforzo e la fatica che si devono fare, l ‘impegno intenzionale che si deve mettere per raggiungere un obiettivo – se devi impegnarti molto in qualcosa, significa che non hai talento. Paradossalmente più ti sforzi di fare bene, più pensi e dimostri di non essere capace. Per la stessa ragione, chi ha un fixed mindset è in genere impermeabile alle critiche, anche quando sono costruttive: se hai bisogno di aiuto, vuol dire che non hai talento.Se basta una critica, anche costruttiva, per mettere in discussione il talento, proviamo a immaginare come si pone l’individuo con il fixed mindset davanti ai successi altrui: sono una pericolosa minaccia.Non stupisce quindi che le persone con questa mentalità tendano a stabilizzarsi precocemente e rischiano quindi di non realizzare a pieno il proprio potenziale.
Mentalità dinamica
Agli antipodi del fixed mindset, Carol Dweck ha individuato le caratteristiche che definiscono il growth mindset (mentalità dinamica), ossia una forma mentis orientata al miglioramento, alla crescita e allo sviluppo personale. Chi crede che le qualità personali possano essere coltivate attraverso l’esperienza, in genere, ritiene che nessuno possa conoscere a priori il potenziale umano di ciascun individuo, potenziale che può essere esplorato soltanto attraverso la pratica. Secondo il growth mindset, tutti noi possiamo cambiare e migliorare se lo vogliamo . Perché sprecare tempo cercando di dimostrare di essere il migliore, quando puoi investirlo migliorando te stesso? Questa tipologia di individui non comprende “talenti”, bensì profili fortemente orientati all’apprendimento.
Not a genius, but a learner.
Il desiderio di imparare è infatti la caratteristica più evidente del growth mindset, anzi possiamo dire che è il suo significato principale. Le sfide non sono viste come rischiose prove che possono svelare la propria inadeguatezza, ma occasioni di apprendimento. Sbagliare significa scoprire qualcosa di nuovo, che prima si ignorava. La fatica e lo sforzo sono necessari nella continua tensione verso il miglioramento. Le critiche sono consigli preziosi. Il successo altrui è un esempio da seguire. Certo il fallimento è sempre una dura realtà con cui fare i conti. Ma in un caso — fixed mindset — gli individui lasciano che il fallimento li definisca una volta per tutte. “Fallito” è un’etichetta di cui si vergognano e che si porteranno dietro per sempre, perché fallire significa essere un fallimento. Nell’altro caso — growth mindset — fallire significa avere fallito in quel momento, si tratta di un episodio da gestire, da cui imparare, da superare. Non è qualcosa che ti segna per sempre, ma qualcosa di cui devi assumere il controllo. In questa mentalità, il concetto di “perfezione” non solo non si dà a priori, ma non si raggiunge mai ed è solamente
un’idea regolativa che ci sprona a fare sempre meglio.
Si può cambiare mentalità?
I fixed mindset ti risponderanno di no. I growth mindset ti risponderanno di sì. Ovvio che nessuno incarna in modo esclusivo una mentalità o l’altra, ma tutti noi ci troviamo in un punto tra questi due estremi. I diversi contesti in cui ci muoviamo tutti i giorni e che noi stessi contribuiamo a costruire, come la famiglia e il lavoro, sono decisivi nella formazione di una cultura fixed o growth. L’arte di dare e ricevere feedback è cruciale per favorire una cultura growth. Suggerimento: premiare lo sforzo, non il risultato. Affrontare con lucidità e spirito collaborativo il fallimento, non negarlo. Qualunque sia la nostra mentalità dominante, nessuno di noi sa di che cosa siamo veramente capaci — e di cosa no — finché non proviamo. Sperimentare è l’unico modo che abbiamo per spingerci piu’ avanti .