Bias – Euristiche
da State of Mind
I bias cognitivi e le euristiche sono dei costrutti fondati su ideologie e pregiudizi che consentono di prendere decisioni ma che possono indurre in errore.
I bias cognitivi sono costrutti fondati, al di fuori del giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie; utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica.
Bias: etimologia e origine del termine
Bias è un termine inglese, che trae origine dal francese provenzale biais, e significa obliquo, inclinato. Questo termine, a sua volta trae origine dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo. Inizialmente, tale termine era usato nel gioco delle bocce, soprattutto per indicare i tiri storti, che portavano a conseguenze negative. Nella seconda metà del 1500, il termine bias, assume un significato più vasto, infatti sarà tradotto come inclinazione, predisposizione, pregiudizio.
Cosa sono i bias cognitivi
I bias cognitivi sono costrutti fondati, al di fuori del giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie; utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica. Si tratta, il più delle volte di errori cognitivi che impattano nella vita di tutti i giorni, non solo su decisioni e comportamenti, ma anche sui processi di pensiero.
Le euristiche ( dal greco heurískein: trovare, scoprire) sono, al contrario dei bias, procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi, scorciatoie mentali, che permettono di costruire un’idea generica su un argomento senza effettuare troppi sforzi cognitivi. Sono strategie veloci utilizzate di frequente per giungere rapidamente a delle conclusioni.
Le euristiche cognitive
Nel 2002 Kahneman e Frederick teorizzarono che l’euristica cognitiva funzionasse per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza consapevolezza. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un euristica che è un concetto affine a quello precedente, ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo.
Quindi, i bias sono particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentale e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria.
In sintesi, se le euristiche sono scorciatoie comode e rapide estrapolate dalla realtà che portano a veloci conclusioni, i bias cognitivi sono euristiche inefficaci, pregiudizi astratti che non si generano su dati di realtà, ma si acquisiscono a priori senza critica o giudizio.
Errori cognitivi e terapia cognitiva
Il ragionamento umano fa ampio impiego di euristiche, scorciatoie di pensiero e modalità rapide e intuitive che esulano dal ragionamento logico. Ciò che rende questi stili di pensiero disfunzionali non è la loro presenza, ma la loro rigidità e inflessibilità, specialmente se ci conduce ad interpretare gli eventi, e noi stessi, in modo irrealisticamente negativo.
Gli errori di ragionamento, quando avvengono in modo sistematico, possono causare problemi, perchè sono alla base di pensieri e credenze disfunzionali, poco realistiche che determinano sofferenza emotiva. Le distorsioni cognitive possono essere riconosciute e modificate allo scopo di riformulare pensieri più realistici, adattivi e funzionali al nostro benessere.
Beck dà importanza centrale al concetto di verità empirica e logica e alla scoperta degli errori. Le sue liste di errori sono differenti nelle varie edizioni della sua opera. Nel libro del 2010 di Clark e Beck troviamo 6 possibili errori: catastrofizzare, saltare alle conclusioni, visione a tunnel, pensiero dicotomico, imminenza percepita della minaccia, ragionamento emotivo.
Beck presenta questa lista di errori al paziente scritta su un foglio con le descrizioni di ogni singola distorsione cognitiva. Il paziente deve poi segnare i processi che riconosce come suoi e descrivere situazioni in cui ha usato quei processi distorti. La terapia, insomma, è una sorta di addestramento cognitivo al pensiero logico.
Quali sono i bias cognitivi più comuni?
Bias di conferma
A ciascuno di noi piace essere d’accordo con le persone che sono d’accordo con noi e ciascuno di noi tende ad evitare individui o gruppi che ci fanno sentire a disagio: questo è ciò che lo psicologo B.F. Skinner (1953) ha definito “dissonanza cognitiva”. Si tratta di una modalità di comportamento preferenziale che porta al bias di conferma, ovvero l’atto di riferimento alle sole prospettive che alimentano i nostri punti di vista preesistenti.
Bias di gruppo
Molto simile al bias di conferma è il bias di gruppo, che ci induce a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo, a considerare i successi del nostro gruppo come risultato delle qualità dello stesso, mentre si tende ad attribuire i successi di un gruppo estraneo a fattori esterni non insiti nelle qualità delle persone che lo compongono. Le valutazioni affette da queste tipologie di distorsioni cognitive possono risultare poco chiare a chi viene valutato, che spesso non comprende le basi sulle quali la valutazione si fonda e che invece nota, d’altra parte, un’eccessiva intransigenza di pensiero.
Bias di Ancoraggio
O trappola della relatività, è un bias per il quale nel prendere una decisione tendiamo a confrontare solo un insieme limitato di elementi: l’errore è quello di ancorarsi, cioè fissarsi su un valore che viene poi usato, arbitrariamente, in modo comparativo, cioè come termine di paragone per le valutazioni in atto, invece che basarsi sul valore assoluto.
Dan Ariely, un economista comportamentale, fa l’esempio con l’acquisto di una barretta di cioccolato: la prima, non di marca, costa 1 penny al pezzo, l’altra invece di marca costa 15 centesimi. Vista la presunta migliore qualità del cioccolato della barretta di marca, questa si configura come un’ occasione, infatti la maggior parte dei consumatori scelse di acquistare proprio la seconda barretta. In un secondo esperimento, vennero usate le stesse due barrette di cioccolato, ma scontate entrambe di 1 centesimo: cioè la prima barretta era gratis e la seconda costava 14 centesimi. L’offerta continuava ad essere vantaggiosa per la barretta di marca, ma nonostante questo la maggior parte dei compratori scelse la barretta non di marca.
Fallacia di Gabler
Un altro bias cognitivo frequente è la cosiddetta fallacia di Gabler, ovvero la tendenza a dare rilevanza a ciò che è accaduto in passato, così che i giudizi attuali siano del tutto influenzati da tali eventi passati. In virtù di questo bias cognitivo chi ha ricevuto un giudizio positivo nel passato tenderà a ricevere un giudizio positivo anche nel presente, anche a dispetto delle reali prestazioni attuali, che potrebbero essere negative o in calo rispetto a quelle passate. Insomma…“è la prima impressione quella che conta!”
Nell’errore per somiglianza, apprezziamo nell’altro aspetti simili a quelli che riconosciamo in noi stessi; mentre nell’errore per contrasto, al contrario, apprezziamo i tratti di personalità diametralmente opposti ai nostri: il risultato può portare a sovrastimare negli altri quei tratti che riconosciamo opposti ai nostri. Per esempio se siamo timidi o introversi saremo indotti da questo bias cognitivo a giudicare gli altri più sicuri ed estroversi di quanto siano in realtà.
Bias di proiezione
Simile è il bias di proiezione: per il quale pensiamo che la maggior parte delle persone la pensi come noi. Questo errore cognitivo si correla al bias del falso consenso per il quale riteniamo che le persone non solo la pensino come noi, ma anche che siano d’accordo con noi! In sostanza è un bias cognitivo che ci indice a sopravvalutare la “normalità” e la “tipicità”.
Bias della negatività
Comporta un’eccessiva attenzione rivolta verso elementi negativi, che vengono anche considerati come i più importanti. A causa di questa distorsione cognitiva, si tende a dare maggior peso agli errori, sottovalutando i successi e le competenze acquisite ed attribuendo così una valutazione negativa alla prestazione.
Bias dello status quo
E’ una distorsione valutativa dovuta alla resistenza al cambiamento: il cambiamento spaventa e si tenta di mantenere le cose così come stanno. La parte più dannosa di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose.
Bias del pavone
(self-enhancing transmission bias): per il quale siamo indotti a condividere maggiormente i nostri successi, rispetto ai nostri fallimenti. L’uso che la maggior parte delle persone fa dei social è una fotografia esaustiva di questo tipo di bias, sui social infatti le persone tendono a mostrare per lo più un’ immagine positiva di sé, tanto da far sembrare la vita di tutti ideale.
Illusione della frequenza
(frequency illusion): il cervello tende a selezionare informazioni che ci riguardano – per esempio a farci notare donne con i capelli corti se per esempio ci siamo appena tagliate i capelli corti o auto rosse se abbiamo appena acquistato una macchina rossa – il nostro errore di valutazione è quello di credere che ci sia realmente un incremento nella frequenza di donne con i capelli corti o di macchine rosse, cioè tendiamo a sovrastimare la frequenza di informazioni che ci riguardano.
Bias del presente
Nel bias del presente, detto anche hyperbolic discounting, le decisioni vengono prese per ottenere una gratificazione immediata, ignorando le possibilità di guadagno differite nel tempo. Questo atteggiamento influenza i nostri comportamenti in 3 importanti aree della nostra vita: l’alimentazione, la vita professionale e i risparmi.
In uno studio condotto da Read & van Leeuwen (1998), il 74% dei partecipanti sceglieva la frutta quando doveva decidere cosa mangiare la settimana successiva. Ma dovendo decidere cosa mangiare subito il 70% sceglieva il cioccolato! Lo stesso vale per denaro: siamo molto ben disposti ad approfittare di sconti nel momento presente, rimandando al futuro la preoccupazione per le spese più impegnative. Chi si occupa di marketing crea infatti proposte ad hoc che ci inducano ad accettare di comprare un prodotto grazie a uno sconto o a un “regalo” iniziale, vantaggio che viene perso sul lungo periodo ma che, proprio per effetti del bias del presente, non valutiamo.
Il bias del presente entrerebbe in gioco più facilmente anche sulla base del tono dell’umore: Una ricerca condotta da un team di ricercatori della Harvard Kennedy School of Government e della Columbia University ha studiato in che modo l’impazienza causata dalla tristezza può produrre notevoli perdite finanziarie. Utilizzando i dati raccolti dall’Harvard Decision Science Laboratory e dal Center for Decision Sciences at Columbia, gli autori hanno scoperto che l’emozione di tristezza, indotta dalla visione di un video, induceva i soggetti sperimentali a scelte finanziarie impazienti e miopi: i loro guadagni aumentavano nell’immediato ma diminuivano sul lungo periodo producendo una sostanziale perdita finanziaria. Chi invece era stato assegnato alla visione di un video neutro non andava incontro alle stesse reazioni e i loro guadagni risultavano complessivamente maggiori.
Optimism Bias (Bias dell’ottimismo)
Optimism Bias: Neuroscienze e scienze sociali concordano nel ritenere l’essere umano più ottimista che realista, nonostante ci piaccia pensare di essere creature razionali capaci di fare giuste previsioni sulla base di valutazioni obiettive.
In realtà diversi studi hanno dimostrato che le persone sottostimano la possibilità di divorziare, di perdere il lavoro, di ammalarsi di cancro mentre sovrastimano la propria aspettativa di vita di oltre 20 anni. Questa tendenza a percepire il futuro roseo, anche paragonandolo al passato e al presente, è nota come optimism biase ci riguarda tutti, maschi e femmine, giovani e non giovani, ricchi e poveri.
Certo è strano immaginare che tale atteggiamento mentale sopravviva anche in tempi di crisi economica e sciagure ambientali, ma la nostra mente se la cava immaginando un difficile futuro per la collettività ma non per noi stessi.
Bias di Omissione
Per bias di omissione si intende quella tendenza sistematica a preferire scelte che comportano l’omissione anziché l’azione, anche quando questo significa esporsi a rischi oggettivamente elevati. A questa conclusione sono giunti Ritov e Baron in un loro studio, in cui hanno condotto dei soggetti di fronte ad una situazione decisionale in un contesto di un’ epidemia letale per i bambini. I partecipanti, prendendo il ruolo di genitori, avrebbero dovuto decidere se sottoporre i propri figli ad una vaccinazione (azione) o meno, sapendo che, in quest’ultimo caso, il rischio di morte sarebbe stato più alto. Molti soggetti si opposero alla vaccinazione, scegliendo la soluzione apparentemente tutt’altro che razionale. La spiegazione data dagli autori è la seguente: la paura di commettere una scelta errata, porterebbe i soggetti ad assumere una posizione passiva in modo da sperimentare un rimpianto minore qualora l’esito fosse la morte del bambino.
Bias d’Azione
I bias d’azione invece sono l’esatto contrario dei bias di omissione, in quanto le persone tenderebbero ad agire anche quando l’azione è meno vantaggiosa dell’omissione. Questo bias è stato studiato da Fagerlin, Zikmund-Fisher e Ubel in un loro esperimento: nel caso di una diagnosi di cancro, i pazienti preferivano sottoporsi a trattamenti (azione), piuttosto che a semplici controlli (inazione), anche se i trattamenti risultavano più dannosi o meno efficaci dell’inazione. Tuttavia, una variabile importante che potrebbe aver influenzato i risultati dello studio è la gravità del cancro dei soggetti.
Questo tipo di bias è anche osservabile nei portieri di calcio durante i calci di rigore: pur sapendo che la strategia ideale per i portieri sarebbe rimanere al centro della porta (inazione), molto spesso ai rigori, il portiere si tuffa in una delle due direzioni laterali (azione).
Bias cognitivi e gioco d’azzardo patologico
Rispetto al gioco d’azzardo sono state descritte diverse forme di distorsioni cognitive:
- Gambler’s fallacy: quando un evento generato dal caso devia dalla media, l’evento opposto viene giudicato più probabile (ad es. “se per 4 volte è uscito il nero, allora è più probabile che esca il rosso”);
- Overconfidence: gli individui esprimono una aumentata fiducia nelle proprie capacità che non è giustificata da dati reali (ad es. ritenersi più bravi di altri nell’indovinare i numeri, nel capire i meccanismi sottesi al gioco, nell’implementazione di strategie di gioco efficaci).
- Trends in number picking (Tendenze nei numeri): vengono individuate tendenze e “leggi” relativamente a distribuzioni casuali (errore tipico di chi pensa che i numeri “ritardatari” abbiano più probabilità di essere estratti, oppure che un numero appena estratto non sia probabile nelle estrazioni successive).
- Illusory correlations (Correlazioni illusorie): si rileva quando due eventi appartenenti a differenti domini della realtà vengono giudicati interdipendenti se si presentano in concomitanza (ad es. comprare un gratta e vinci fortunato e continuare a recarsi sempre nello stesso bar per acquistarne altri). E’ anche alla base dei comportamenti ritualistici e scaramantici.
- Avaliablity of other wins (Vincite altrui): un errore logico che distorce in maniera piuttosto diretta la stima delle probabilità si presenta quando venire a conoscenza delle vincite realizzate dagli altri (tramite mass media o esperienze più o meno dirette) fornisce la convinzione (credenza) che “vincere” sia un evento che capita regolarmente e che “per vincere basta continuare a giocare”.
Nel tentativo di fare chiarezza, uno studio recente (Ejova et al., 2015) ne propone una classificazione più semplice e più puntuale.
Gli autori hanno realizzato un questionario di 100 item basato su strumenti esistenti, riguardanti credenze e modalità di ragionamento distorte, e lo hanno somministrato a 329 partecipanti. L’analisi fattoriale ha rilevato che le credenze sul gioco fanno capo a due tipologie, definibili come:
– Illusione di controllo primaria: si tenta di influenzare l’esito del gioco mediante modalità di ragionamento attivo e comportamenti pseudo-strategici;
– Illusione di controllo secondaria: si cerca di influenzare l’esito del gioco adottando mediante condotte superstiziose, appellandosi a forze al di fuori dal proprio controllo quali la fortuna o la religione.
Del primo gruppo fanno parte diverse credenze da tempo descritte (Fortune and Goodie 2012; Griffiths 1994; Toneatto 1999; Toneatto et al. 1997), che troverebbero nella Fallacia del giocatore il minimo comune denominatore, ovvero, nella credenza per cui eventi avvenuti in passato possano influenzare gli esiti di attività dettate dal caso, come per l’appunto il gioco d’azzardo. Questa credenza si traduce in azioni di gioco: un esempio tipico è quello di una partita a “Testa o croce”, in cui per 5 volte la moneta si è appoggiata sul lato della testa. Una persona che utilizza questo stile di ragionamento tenderà a scommettere su croce, convinto che a questo punto, l’esito del gioco debba per forza variare. Un altro esempio è la scommessa sui cosiddetti “numeri ritardatari” del Lotto, la cui probabilità di uscita non dipende assolutamente dal fatto che non amino la puntualità.
Ci sono altri modi in cui questo stile di pensiero conduce a comportamenti disfunzionali, ad esempio favorendo la persistenza nel gioco a dispetto dei risultati, che è stato descritto come chasing (Lesieur, 1977), ovvero la cosiddetta “rincorsa delle perdite”. Il giocatore continua tenacemente a scommettere nonostante abbia già subito intense perdite, nella speranza di arrivare alla vincita riparatoria. Tra il chasing e la fallacia del giocatore non sembrerebbero esserci differenze logiche di fondo, ma il primo rappresenta una modalità di pensiero più rigida e prettamente disfunzionale, tipica di chi ha sviluppato problemi nel controllare il proprio gioco.
Tra le illusioni di controllo secondarie gli autori inseriscono tutte le credenze riguardanti il ruolo della fortuna e di agenti soprannaturali, aventi caratteristiche di onniscienza e di onnipotenza. Ad esempio è tipico invocare il ruolo della fortuna, o di forze divine, quando si è scampati da un evento negativo (es. un incidente), fino a sviluppare la credenza nella fortuna come qualità personale (Wohl and Enzle 2009).
I giocatori adottano spesso comportamenti superstiziosi: giocano il numero fortunato, consultano il libro dei sogni, soffiano sui dadi e non esitano a consultare maghi e cartomanti nella speranza di avere una chance in più.
Può esserci infine in una disposizione più generale a credere che la fortuna abbia per sua natura caratteristiche di ciclicità. Quest’ultima credenza svolge un ruolo di “ponte” tra le due categorie di illusione di controllo: da una parte c’è la credenza nella fortuna come agente sovrannaturale in grado di cambiare ciclicamente le sue intenzioni, dall’ altra vi è la credenza che una serie di eventi negativi possa terminare nel breve termine, portando a pianificare la scommessa.
A complicare le cose, i processi decisionali nel gioco potrebbero essere fortemente condizionati dallo stato emotivo, e quest’ultimo potrebbe a sua volta essere influenzato dagli esiti del gioco. Inoltre, la capacità di prevedere quanto le emozioni possano influenzare le nostre scelte sembrerebbe essere scarsa, non solo nei giocatori, ma spesso anche nelle condotte più quotidiane.
Un esempio di come fatichiamo a predire quanto le emozioni influenzino le decisioni è rappresentato dal hot-cold empathy gap (Loewenstein, 1996): quando ci troviamo in uno stato emotivo “freddo” (o neutrale), tendiamo a sottostimare l’impatto di uno stato emotivo “caldo” (o intenso) sul nostro comportamento. Inoltre, se il nostro stato emotivo ha una valenza negativa, come quando ci sentiamo deprivati di una risorsa che ha una certa importanza per noi, con il nostro comportamento tenderemo a reagire per compensare questi sentimenti negativi e ripristinare una sorta di omeostasi emotiva.
Questa reazione può tuttavia risultare in una sovracompensazione non sempre adattiva. Ad esempio, molte persone quando sono affamate finiscono con il procurarsi più cibo del necessario, rispetto a quanto avevano pianificato (Gilbert et al., 2002); allo stesso modo, chi fa uso di sostanze tende a sottostimare l’impatto del craving (Badger et al., 2007). Questo potrebbe spiegare perché molte persone giurano a se stesse (magari decine di volte) di avere in bocca l’ultima sigaretta, e si ritrovano dopo alcuni giorni a fumare più di prima.
Alla luce di queste considerazioni, è evidente che un processo analogo potrebbe riguardare il gioco d’azzardo: vincere o perdere al gioco, è un’esperienza emotiva tutt’altro che neutra. Uno studio recente (Andrade et al., 2014) ha cercato di descrivere il modo in cui le esperienze emotive possono influenzare le decisioni sul gioco. Gli esperimenti condotti consistevano in una sessione di gioco simulata, di soli due round, il primo obbligatorio e il secondo facoltativo. Ai partecipanti veniva consegnato un credito per giocare, di tipo monetario o non-monetario (punti per gli esami), sufficiente per scommettere nei due round. Veniva quindi chiesto loro di pianificare la loro intenzione a scommettere dichiarando se intenzionati a proseguire nel secondo round, sulla base di una vincita o di una perdita. I risultati indicano una contraddizione tra la pianificazione dei partecipanti allo studio e il loro comportamento effettivo: i partecipanti dichiarano di scommettere meno in seguito a una perdita rispetto a quanto si è effettivamente verificato, mentre non si rilevano differenze significative per le vincite. Questo dato si potrebbe interpretare secondo l’ipotesi del gap empatico (Loewenstein, 1996): mentre a “mente fredda”, si è più portati a scegliere una strategia di tipo “conservativo” per fronteggiare la perdita, le emozioni che questa provoca spingono i partecipanti a compensare lo stato emozionale negativo, cercando la vincita riparatoria.
Questi dati potrebbero inoltre spiegare come mai i giocatori patologici persistono nelle scommesse nonostante le perdite ingenti e, nonostante le riflessioni dettate dalla razionalità suggeriscano il contrario. Il cosiddetto chasing (Lesieur, 1977), o rincorsa delle perdite, non è solo uno stile di pensiero, è un agire dettato dalla disperazione. Perdere molti soldi crea un’esperienza emotiva intensa e fortemente spiacevole, va da sé che il giocatore tenterà di compensare questo stato negativo con l’unico mezzo che conosce: continuare a scommettere.
Lo stato emotivo esercita quindi un’influenza sulle decisioni individuali. Fortunatamente, gli autori osservano che questi effetti possono essere mitigati in due modi:
– istruendo i partecipanti a tenere conto dell’impatto delle emozioni sulle loro scelte;
– incrementando il tempo di attesa tra una scommessa e l’altra.
STATE OF MIND