Che fatica vivere, oh cielo!

Sopravvivere alle sopravvivenze

Dopo nove, dieci, undici, forse dodici capitoli dedicati a ogni possibile forma di sopravvivenza interiore ed esteriore, eccoci qui, a raccogliere i cocci e tirare il fiato. Ci siamo occupati di caos, di corpo, di pensieri, di relazioni, di fallimenti, e abbiamo cercato di rimanere lucidi, presenti, consapevoli, magari perfino ironici lungo il tragitto. Abbiamo preso ogni piccola crepa della vita quotidiana e l’abbiamo trattata con cura, come se ognuna nascondesse un segreto da decifrare o un significato da estrarre con pinzette chirurgiche. Abbiamo trattato il disagio con rispetto, come si fa con un ospite che non se ne vuole andare, cercando di farlo sedere comodo, offrirgli un caffè e magari fargli raccontare qualcosa di utile prima che rompa troppo.

“Sopravvivere è saper smettere prima che diventi una carriera.”

Ma a questo punto, dopo tutta questa sopravvivenza accurata, sento il bisogno di dire qualcosa con un certo affetto stanco, come si fa con un amico che prende tutto un po’ troppo sul serio: ecco, forse è il momento di sopravvivere proprio all’idea di dover sempre sopravvivere. Perché a furia di analizzare ogni emozione come se fosse un sistema da ottimizzare, a forza di interpretare ogni stanchezza come una crisi spirituale e ogni umore ballerino come un’infanzia da rielaborare, siamo finiti a vivere dentro un manuale di manutenzione. Come se essere vivi non bastasse più, ma servisse anche documentarlo con una certa profondità, con delle citazioni pertinenti e magari un sottotesto filosofico.

Viviamo in una cultura dove tutto deve avere senso, peso, struttura. Essere stanchi non è più solo essere stanchi: è un segnale, un indice di qualcosa, una porta d’ingresso per un nuovo ciclo di crescita personale. Sentirsi persi non è più una condizione comune e normale, ma una disfunzione provvisoria da mappare con precisione. Ogni stato d’animo diventa una diagnosi provvisoria, ogni momento di fragilità una finestra per la trasformazione. Ma a furia di vivere così, con il fiato corto e la lente d’ingrandimento puntata su ogni pensiero, il rischio è che si perda proprio quello che cercavamo di proteggere: un rapporto sano e decente con la vita.

Sopravvivere a tutto è un’attitudine rispettabile, ma se diventa un mestiere rischia di trasformarsi in una nevrosi ben confezionata. Non c’è niente di male nel voler stare meglio, nel capirsi, nel cercare strumenti per non finire in un mucchio di pensieri aggrovigliati. Ma quando tutto diventa un progetto di consapevolezza, anche la spontaneità si sfinisce. Arriva un punto in cui bisognerebbe tornare a vivere senza sempre …….. Dio ! Che palle!! . Non tutto ha un significato. Non ogni giornata nasconde un messaggio. Non ogni errore ha bisogno di una cornice narrativa. A volte sei solo stanco, punto. A volte sei nervoso, senza una causa precisa. A volte ti va tutto bene e non hai nulla da dire su questo. Non serve giustificare ogni respiro con un piano evolutivo.

Sopravvivere alle sopravvivenze è proprio questo: mollare un po’ la presa. Lasciare andare la pretesa di dover sempre capire, migliorare, correggere, interpretare. Vivere anche senza performance, anche senza senso, anche senza didascalia. Ci sarà tempo per i momenti profondi, per le intuizioni rivelatrici e per i grafici che spiegano la tua curva esistenziale. Ma non ogni settimana. Non ogni singolo pensiero. Lasciati andare al lusso — sì, oggi è un lusso — di essere mediocre, svogliato, in pausa. Di fare le cose senza ottimizzarle. Di vivere male, senza doverlo spiegare a nessuno, nemmeno a te stesso.

E quindi, grazie. A te che sei arrivato fino a qui. A te che hai letto tutto, o quasi tutto, o hai semplicemente deciso che anche leggere rientrava in un tentativo di stare un po’ meglio. Grazie a te che sopravvivi, che resisti, che ti interroghi anche quando potresti lasciar perdere. Grazie a te che prendi la vita sul serio, ma da oggi magari un po’ meno. Perché la verità è che nessuno sa davvero come si fa. Anche chi scrive, chi guida, chi consiglia, spesso non fa altro che provare a tenersi in equilibrio tra i propri pensieri e le proprie giornate storte. Siamo tutti lì, più o meno allo stesso livello: vivi, disordinati, a tratti lucidi, a tratti persi, ma ancora in piedi.

E forse, se proprio dobbiamo darci un obiettivo, è questo: smettere di sopravvivere e cominciare — senza troppa convinzione, senza troppa enfasi — a vivere. Anche male. Anche così.


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