Non è semplice
È facile attribuire ad altri il nostro disagio. Più difficile è riconoscere che spesso il peso che sentiamo non viene da fuori, ma da dentro. Non sono le persone intorno a noi, non è il mondo. Siamo noi, con quello sguardo critico sempre acceso, con quella voce che non tace mai, con l’ansia costante di dover diventare qualcosa di diverso da ciò che siamo. Può sembrare paradossale, ma uno dei compiti più complessi è imparare a convivere con se stessi senza logorarsi nel tentativo. Essere esigenti può essere utile, ma solo se non diventa autodistruttivo.

Cresciamo con l’idea che dovremmo migliorarci continuamente. Che il nostro valore dipenda dalla capacità di trasformarci, di superare i limiti, di correggere ogni parte che non funziona. In parte è vero, ma esiste un confine sottile: quando questo processo comincia a consumarci, non è più crescita, è esaurimento. Non siamo progetti da perfezionare all’infinito. Non siamo prodotti da rifinire continuamente. Siamo esseri viventi: instabili, contraddittori, imperfetti. Pretendere da noi stessi coerenza, controllo e prestazione costante è una forma di violenza silenziosa, e per questo ancora più subdola.
La vera difficoltà non è tanto ammettere i propri limiti, quanto restare presenti quando quei limiti emergono. Non correggerli subito, non fuggire. Solo restare. C’è forza in chi riesce a non scappare da sé anche quando si sente fragile, o spento. Sopravvivere a se stessi comincia così: smettendo di considerarsi un problema da risolvere. Accettando che non saremo mai finiti, né perfetti, né completamente comprensibili. Né a noi, né agli altri.
La voce interiore che giudica non va messa a tacere con la forza. Va riconosciuta per quello che è: un’abitudine. Una parte di noi che può parlare, ma a cui non dobbiamo rispondere ogni volta. Non tutto ciò che pensiamo è vero. Non ogni pensiero merita una reazione. Ma per distinguere ciò che è utile da ciò che logora, serve conoscersi. E conoscersi non è sempre un processo luminoso. Spesso passa per il disprezzo, per la delusione. Nietzsche lo sapeva bene: per arrivare ad affermare un sì profondo verso se stessi, bisogna attraversare anche l’ombra. Tollerarsi non basta. Occorre riconoscersi, e decidere che si può restare.
Sopravvivere a se stessi significa anche rinunciare a certi miti. L’idea che esista una versione definitiva e migliore di noi stessi che prima o poi raggiungeremo. L’illusione che la vita si chiarirà, o che la stabilità interiore sia uno stato duraturo. Non funziona così. La vita non si spiega tutta d’un colpo, anzi, forse non si spiega mai. Il senso non è un premio, ma un percorso pieno di deviazioni e aggiustamenti. La stabilità non è assenza di caos, ma capacità di restarci dentro senza perdersi.
E nei momenti più duri, quando la confusione è totale e la fatica pesa anche sul respiro, non servono soluzioni. Non serve cambiare subito. Non serve capire. A volte, l’unica cosa che conta è restare. Restare nel proprio corpo, anche se ingombrante. Restare con i propri pensieri, anche se disordinati. Restare con la propria voce, anche se fa male. La sopravvivenza non è mai elegante. Ma se ci sei, è già abbastanza.