Il dubbio come stile di vita

ovvero: come restare lucidi mentre il mondo urla “Sii te stesso!” e tu non sai nemmeno chi sei prima del caffè

Ci sono giorni in cui ti alzi, guardi fuori dalla finestra e ti senti già stanco. Non fisicamente, no. Esistenzialmente. Stanco di tutto quel rumore, di tutta quella sicurezza ostentata da chi ha sempre la risposta pronta, il piano di vita definito, la bio di Instagram con tre verbi all’infinito e una citazione motivazionale scritta in corsivo.
E tu lì, che a malapena sai che cosa vuoi mangiare a pranzo. Se mangiare, addirittura.

Benvenuto. Sei entrato nella fase scettica dell’esistenza.
Ed è un’ottima notizia.

Perché a questo punto del disastro mentale collettivo, continuare a dubitare è un atto di salute.
Dubitare non ti rende debole. Ti rende vivo.
È il contrario del fanatismo, della fretta, del “tutto è chiaro”.
Il dubbio è uno spazio vuoto in cui puoi respirare, finalmente.

I filosofi scettici, quelli veri, lo sapevano bene. Erano gente pratica, concreta, e anche un po’ stanca.
Dicevano: guarda che non puoi sapere niente con certezza. Le percezioni ingannano, la mente è ballerina, la realtà cambia continuamente e tu… tu sei umano. Quindi imperfetto, quindi fallibile, quindi costantemente esposto alla possibilità di aver capito tutto male.

E invece oggi sembriamo tutti terrorizzati dall’idea di dire “non lo so”.
Meglio improvvisare risposte, tenere la voce ferma, sembrare competenti.
Ma sotto, dentro, in fondo, lo sappiamo: non abbiamo la minima idea di cosa stiamo facendo.
Eppure fingiamo. Come se la sicurezza fosse una moneta sociale da spendere ovunque.

Montaigne, per esempio, era un maestro del dubbio elegante. Scriveva centinaia di pagine partendo da una semplice domanda: “Che ne so?”
E la risposta era quasi sempre: “Molto meno di quanto credessi.”
Eppure il suo pensiero è sopravvissuto secoli, proprio perché non voleva convincerti di nulla. Ti voleva solo far pensare. Respirare. Prenderti una pausa dall’arroganza.

Nietzsche invece era più cattivo. Il dubbio per lui non era un divano comodo, era una lama affilata.
Lui dubitava di tutto: della morale, della religione, della scienza, dell’idea stessa di verità.
Non per demolire tutto, ma per liberare lo spazio necessario a una nuova visione.
Il suo dubbio era un terremoto necessario. Ti costringeva a guardare l’abisso. A farti domande scomode. A non nasconderti dietro risposte preconfezionate.

E se anche tu oggi ti senti così – stanco delle semplificazioni, dei dogmi, delle soluzioni facili a problemi complessi – allora stai camminando sulle loro orme.
Anche se lo fai in pantofole, mentre controlli le mail.

Il dubbio, quando lo accetti, non paralizza.
Ti rende leggero.
Ti toglie il dovere di avere un’opinione su tutto, di prendere posizione su ogni tema, di partecipare a ogni discussione.
Puoi dire: “Non lo so.”
Puoi dire: “Ci penso.”
Puoi dire: “Mi sembra tutto assurdo, eppure sono ancora qui.”

Questo non vuol dire vivere nel caos.
Vuol dire vivere con grazia nell’incertezza.

Ed è lì che nasce qualcosa di interessante.
Perché nel momento in cui smetti di fingere di sapere tutto, inizi davvero a capire qualcosa.
Di te, degli altri, del mondo.
Non perché hai trovato la verità.
Ma perché finalmente non ti serve più trovarla per stare in piedi.

Il dubbio, in fondo, è anche una forma di gentilezza.
Verso te stesso.
Verso gli altri.
Verso il fatto che siamo tutti un po’ persi, anche se ci mettiamo le giacche buone e parliamo con sicurezza.
E se il mondo ti chiede certezze, tu rispondi con un sorriso stanco e una citazione sbagliata.
Funziona lo stesso.

Perché la sopravvivenza mentale passa anche da qui: dal diritto a non sapere.
Dal lusso di respirare senza dover sempre giustificare tutto.
Dalla capacità di restare in mezzo al dubbio e dire:

“Va bene così. Intanto passo a prendermi un caffè.”


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