tratto da State of Mind
Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia di genere.
Classicamente le teorie eziologiche sull’identità e sulla disforia di genere si dividono tra quelle a carattere più socio-psicologico, che sottolineano il peso dei fattori psicosociali, quali l’educazione ricevuta e l’ambiente di vita familiare e culturale, e quelle che privilegiano fattori biologici come la genetica e il funzionamento neuroendocrino. Le prove di un contributo genetico alla transessualità sono molto limitate: vi sono poche segnalazioni di studi familiari e gemelli sui transessuali, e nessuno offre un chiaro sostegno al coinvolgimento di fattori genetici.
Per quanto riguarda gli ormoni prenatali, le prove a sostegno del fatto che possano influenzare lo sviluppo dell’identità di genere sono un po’ più forti ma è tutt’altro che provato. Un’indicazione che l’esposizione al testosterone prenatale ha effetti permanenti sull’identità di genere proviene dallo sfortunato caso di David Reimer. Altri studi clinici hanno riportato che l’identità di genere maschile emerge in alcuni bambini XY nati con genitali mal formati: questi individui sono stati esposti al testosterone prenatalmente, sottolineando un potenziale ruolo per gli androgeni nello sviluppo di genere e sollevando dubbi sul fatto che i bambini siano psicosessualmente neutri alla nascita. D’altra parte, gli individui XY nati con una mutazione del recettore degli androgeni che causano completa insensibilità agli androgeni (androgen insensitivity syndrome – AIS) sono fenotipicamente femminili, si identificano come femmine e sono più spesso androfili.
È chiaro che nessuno di questi fattori può essere considerato singolarmente, ma più probabilmente sarebbe la loro interazione a determinare lo sviluppo di una Disforia di Genere, tant’è che oggi queste teorie sono ritenute obsolete o sono state integrate in modelli eziologici più complessi.
Teorie psicologiche
- Processi anomali di identificazione primaria o secondaria (Freud, 1921): l’identità di genere verrebbe acquisita tramite due processi di identificazione, primaria e secondaria. Quella primaria avviene nei primi mesi di vita del bambino, e caratterizza la relazione con la madre, con la quale il bambino tende ad identificarsi instaurando un rapporto fusionale ed indifferenziato. A questo segue il processo di identificazione secondaria, che porterà alla strutturazione del complesso edipico, in cui il bambino si identifica con il genitore dello stesso sesso. Nei bambini il processo avverrà grazie alla sostituzione dell’oggetto di identificazione: il padre verrà preso come modello da imitare, la madre rappresenterà la meta delle pulsioni sessuali; si svilupperanno così la mascolinità e l’attrazione verso le donne. Analogamente, nelle bambine la madre verrà mantenuta quale oggetto di identificazione e il padre rappresenterà l’oggetto libidico; da qui, lo sviluppo della femminilità e dell’attrazione verso gli uomini. La Disforia di Genere si svilupperebbe in seguito ad anomalie in uno dei processi di identificazione;
- Identificazione conflittuale del bambino con la madre (Stoller, 1968): l’origine del transessualismo maschile risiederebbe in un mancato emergere da parte del bambino dalla fase di fusione simbiotica con la madre e, di conseguenza, in un’identificazione conflittuale con essa, magari facilitata da un eccessivo contatto fisico che ostacolerebbe il normale processo di separazione. Sebbene Stoller si sia occupato perlopiù di transessualismo maschile, è interessante che nella sua analisi, l’autore ha individuato una costellazione familiare tipica dei soggetti transessuali caratterizzata da eccessiva vicinanza con la madre, spesso portatrice di nevrosi e conflitti, e assenza della figura paterna. Tuttavia, anche se rispetto alla psicoanalisi classica qui vengono introdotti fattori di natura transgenerazionale, la situazione familiare da lui individuata è comune a molteplici condizioni patologiche e non certo caratteristica per lo sviluppo della Disforia di Genere;
- Transessualismo come esito di una reazione difensiva (regressione) messa in atto dal bambino per contrastare l’angoscia di separazione (Person e Ovesey, 1974): quest’angoscia sarebbe così intensa da rappresentare una minaccia di frammentazione del Sé, e spingerebbe il bambino verso una fantasia regressiva di fusione simbiotica con la madre allo scopo di annullare la separazione. Questo determinerebbe l’ambiguità di genere. Anche Person e Ovesey riconoscono un padre emotivamente assente nelle storie familiari dei soggetti studiati; rispetto all’atteggiamento materno, osservano che questo può assumere tre diverse qualità: simbiotico, intrusivo o ostile;
- Assegnazione del sesso alla nascita ed educazione ricevuta dai genitori (John Money, 1975): sarebbero i fattori maggiormente predittivi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. A sostegno di tale ipotesi, Money fece riferimento a un suo caso, diventato celeberrimo, ovvero quello dei gemelli Reimer: in seguito ad una procedura di circoncisione ad uno dei due gemelli, a David venne erroneamente amputato il pene all’età di 7 mesi, per cui Money raccomandò la riattribuzione al sesso femminile, seguita da terapia ormonale, decretandone il successo sulla base del follow – up fino all’età di 9 anni. Questa fu però successivamente criticata da Diamond (1997) che scoprì che, nonostante David fosse stato allevato come una bambina, sviluppò un’identità di genere maschile e durante la pubertà rifiutò la terapia ormonale con estrogeni, ricorrendo poi alla terapia con androgeni e ad un’operazione chirurgica per la ricostruzione del pene. Di fatto Diamond non solo ha smentito l’ipotesi di Money, ma ha anche potenzialmente avvalorato le teorie che sostengono invece un maggior peso delle componenti biologiche;
- Eventi traumatici nella prima infanzia possono scatenare una disforia di genere (Di Ceglie, 1998): Di Ceglie sostiene che, nel tentativo di riuscire ad affrontare situazioni traumatiche relative alla separazione dalla figura genitoriale, il bambino metterebbe in atto un meccanismo di difesa di tipo dissociativo sviluppando un nuovo concetto di sé e identificandosi con il genitore del sesso opposto, per reagire in maniera onnipotente alla minaccia di perdita e salvaguardare la propria integrità psichica. Questo nuovo concetto assume la forma “io sono la mamma” / “io sono il papà”. Questa re-identificazione però non si limita al ruolo genitoriale, ma si estende al concetto di genere “io sono una femmina/io sono un maschio”. In tal senso Di Ceglie ha proposto il concetto di “organizzazione atipica dell’identità di genere”
Teoria multisensoriale
Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia. A partire dalle prime analisi post-mortem del cervello di soggetti transessuali, una ventina di anni fa, l’attenzione si è focalizzata su uno specifico nucleo dell’ipotalamo chiamato letto della stria terminale (BNST). In particolare, questo nucleo sembra avere una dimensione media nelle transwoman (MtF) più simile alle donne cisgender che agli uomini cisgender; questi dati supportano la teoria secondo cui il distress caratteristico della disforia di genere dipende da un’incongruenza anatomica tra il cervello e il corpo sessuato – gli individui transgender avrebbero un cervello di sesso opposto al genere che gli viene assegnato alla nascita. In accordo con questi studi e altri che hanno messo in relazione la disforia di genere con i cambiamenti di body ownership nei soggetti transgender, Stephen Gliske, del dipartimento di neurologia dell’Univerità del Michigan, ha sviluppato una nuova teoria della Disforia di Genere che definisce “multisenso”. In pratica, secondo questa teoria, la Disforia di Genere non sarebbe causata da anomalie neuroanatomiche bensì da cambiamenti sistemici in alcuni network funzionali, che provocherebbero quell’incongruenza tra senso del proprio genere e genere assegnato alla nascita. Gliske considera 3 dimensioni:
- il distress cronico
- non-conformità di genere e comportamento sociale
- incongruenza e body-ownership
che sono costantemente in interazione tra di loro e genererebbero il senso del genere. Alterazioni nelle attivazioni o nelle loro interazioni porterebbero a cambiamenti dinamici nell’attività del network, e sarebbero la causa della soggettiva esperienza di disforia di genere e, probabilmente, anche dei contestuali cambiamenti neuroanatomici che si osservano negli studi summenzionati. Sembrano coinvolti in particolare cambiamenti a livello del BNST, ipotalamo anteriore, insula anteriore, solco intraparietale, lobulo parietale superiore e corteccia orbitofrontale.
Lungi dal voler proporre una teoria meccanicistica di un’esperienza così soggettiva come la Disforia di Genere o l’identità di genere stessa, Gliske sottolinea che i network neurobiologici sottostanti questo modello integrato influenzano quanto un certo individuo percepisce e soffre rispetto a uno stress cronico, quanto desideri agire in coerenza con il suo ruolo di genere e quanto percepisca gli aspetti “genderizzati” del suo corpo come appartenenti a sé. Tutti questi aspetti concorrono alla sensazione di matching (o meno) tra la propria identità di genere e il sesso assegnato alla nascita. Il peso dei fattori socio-comportamentali e di body-ownership può chiaramente essere diverso in individui diversi.