Primo concetto: il paradosso di Easterlin
Il paradosso di Easterlin (1974), dice in sintesi che la relazione tra reddito e felicità auto percepita non cresce linearmente nel tempo, all’inizio aumentano insieme, ma dopo una certa soglia e dopo un certo tempo, ogni ricchezza in più non solo non aumenta la felicità, ma l’andamento s’inverte e la felicità si stabilizza o decresce.
In sostanza, il reddito non è sufficiente a spiegare il benessere soggettivo.
Il paradosso di Easterlin, dopo essere stato messo in discussione, è stato recentemente confermato.
Secondo concetto: utilità marginale di un bene
L’utilità marginale di un bene nell’economia classica è l’utilità apportata dall’ultima unità o dose consumata di un bene espressa in termini di soddisfazione, essa è in genere decrescente. Il primo bignè ha un’altissima utilità marginale, il secondo alta, il decimo bigné bassissima pur rimanendo positiva.
Ciò non vale qualora il bene in questione sia invece di tipo relazionale, in tal caso la sua utilità marginale è crescente. Chi si sente amato non è mai stanco di ricevere amore.
In sostanza esistono categorie di beni che non sono soggetti alle leggi del marketing e dell’economia classica, si tratta di beni che non conoscono rivalità di consumo. In genere cioè si tratta di beni gratuiti, non solo nell’accezione etimologica, cioè dotati di grazia, di una grazia elementare, ma anche proprio in senso commerciale: tutta la grazia è gratuita. Pensiamo ad esempio beni come l’amore, l’amicizia, la bellezza, la tenerezza, la gentilezza, l’armonia, il sentimento di libertà o di giustizia, il desiderio, il piacere, la sensualità, la buona compagnia, la riconoscenza, un abbraccio, il piacere di osservare i figli che crescono, etc. Tutti beni comuni, ubiquitari, e ciononostante irreperibili sul mercato.
Qualcuno potrebbe a buona ragione sostenere: i beni più importanti di una vita.
Economista, alessitimico, sociopatico.
Prendendo in considerazione già solo questi due concetti economici, collegati tra di loro, possiamo intuire che i nessi profondi tra economia e psicologia e neuroscienze cognitive appaiono oggi ancora molto inesplorati, specie nelle conseguenze filosofiche che se ne potrebbero ancora trarre.
Esistono alcuni corollari psicologici di questi due capisaldi dell’economia che in genere gli economisti trascurano. La penosissima condizione psicologica e pulsionale dell’accumulatore convulso e dell’avido ad esempio. L’avido ha subito nel tempo una riabilitazione d’immagine tale da trasformarlo da un pericoloso e repellente antisociale schiavo delle proprie passioni più basse, qual era in genere considerato in antichità, ad un soggetto piuttosto ordinario, oggi.
In generale l’economia è sembrata fino ad oggi una scienza ingenua. Ad essere più precisi è apparsa come una scienza sociale alessitimica, cioè priva di un alfabetizzazione emotiva, di una coscienza di sé e dell’altro da sé, di una consapevolezza integrata della condizione umana, verso la quale è apparsa tutto sommato indifferente. Mantenersi sempre opportunisticamente distanti da una elaborazione condivisa della condizione umana comporta in genere l’acquisizione implicita di modelli culturali inconsapevoli, spesso assai rozzi e pericolosi . L’homo oeconomicus è una sorta di mostruosità psicopatica utilitarista a piede libero senza limiti (privo di metron, privo cioè della misura) che sta flagellando da secoli con la propria razionalità totalitaria e autodistruttiva (e quindi assolutamente irrazionale) l’intero pianeta.
La felicità: un problema di tempo e di altri
Luigino Bruni, nel suo L’economia, la felicità, gli altri (Citta Nuova, Roma, III ed. 2009) tratteggia con estrema chiarezza e raziocinio i termini della questione. Egli sostiene, forte di numerosi studi economici a sostegno (proprio partendo dal paradosso di Easterlin), che nello studio del rapporto tra reddito e felicità sia riscontrabile una tendenza ad escludere alcuni parametri di sistema che non si sono fino ad oggi voluti vedere e considerare nel computo generale della prosperità, probabilmente perché in contrasto con le teorie e le logiche prevalenti.
Parliamo del tempo libero da trascorrere sia con sé che socialmente, e parliamo del ruolo centrale che assume nella valutazione del benessere soggettivo il rapporto continuativo e fecondo con gli altri. La felicità è una scatola vuota se definita, esperita, concepita in assenza di questi due parametri (non scomodiamo Aristotele, non ce n’è bisogno).
Nulla come gli stili di vita contemporanei rappresentano un attacco frontale a questi due capisaldi della felicità umana: tempo e socialità. L’epoca turbocapitalistica e neoliberista in cui viviamo sembra aver inaugurato una vera e propria guerra ideologica e senza quartiere a tempo e socialità imponendo i propri nuovi criteri di buona vita e decretando la morte del prossimo. Il marketing ha sostituito il concetto di libertà con quello di opzione d’acquisto o di zapping, il concetto di buona vita con quello di forma, di salute medicalizzata, il concetto di piacere con quello di potere d’acquisto e di “emozione”, e il perduto mondo autentico e la perduta armonia li ritroviamo tra i “must” di ogni pubblicitario come memoria ancestrale da recuperare attraverso un nuovo e più performante comportamento consumistico. La cura di sé è di fatto diventata la nuova frontiera biopolitica, il nuovo campo di battaglia dove avviene il vero confronto tra visioni del mondo inconciliabili.
Questa riscrittura, direi sovrascrittura, di codici di adeguatezza eseguita sulla carne viva di tutti noi non è un fatto ineluttabile e irreversibile, per quanto sia ormai avvenuta in profondità. Non disperiamo. Occorrono nuove politiche e nuove definizioni di benessere soggettivo. Occorrono nuove sperimentazioni di vita in comune, di scambio economico, di gestione del tempo, di azione politica.