DI SILVIA GRANZIERO 4 LUGLIO 2022
L’ex tennista australiana Jelena Dokic di recente è tornata a parlare della propria salute mentale, dopo aver già raccontato le violenze psicologiche e fisiche ricevute per mano del padre nella sua autobiografia. Dokic ha ancora una volta rotto il silenzio su una questione delicata e spesso ancora considerata tabù come la salute mentale, nel suo caso messa ancora una volta a dura prova da difficoltà personali che l’hanno condotta a un passo dal suicidio. Negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di campioni che hanno contribuito pubblicamente ad abbattere lo stigma della salute mentale, dalla tennista Naomi Osaka alla ginnasta Simone Biles. Allo stesso tempo, i problemi di queste figure eccezionali mettono in luce i danni della competitività sfrenata insita nella nostra stessa società, che il settore degli sport d’élite non fa che riprodurre al quadrato. Se già per il normale senso di competizione, infatti, si subisce una pressione eccessiva da parte dei genitori, degli insegnanti e degli allenatori, magari fin dall’infanzia l’effetto può essere esplosivo. Gli atleti di alto livello vi sono sottoposti precocemente, da quando lo sport, da gioco, diventa soprattutto competizione e le gare diventano sempre più importanti, facendo aumentare ulteriormente la pressione.
Un anno fa la tennista giapponese Naomi Osaka si ritirò dal Roland Garros per prendersi cura di sé, una necessità trascurata troppo a lungo dopo episodi irrisolti di depressione e ansia emersi già tre anni prima. Il problema sembra particolarmente frequente sui campi di tennis, una disciplina in cui si è soli davanti al pubblico, all’allenatore e a sponsor stratosferici. Le ricerche hanno rilevato che il 20% degli atleti soffre di depressione e infatti nemmeno nel nuoto si sfugge: la campionessa italiana Federica Pellegrini ha sofferto di attacchi di panico, mentre il nuotatore statunitense Michael Phelps, con i suoi 23 ori olimpici e i 26 ori mondiali al collo, ha dichiarato: “Dopo ogni Olimpiade cadevo in depressione. La prima volta è successo nel 2004, la droga era un modo per scappare. Le persone hanno paura a parlare dei loro disagi e per questo il tasso di suicidi aumenta”.
Phelps ha portato a galla un problema reale: quello dello stigma della salute mentale, che colpisce con forza particolare anche gli uomini, nel cui ruolo di genere stereotipico la fragilità cozza con l’immagine inscalfibile associata alla virilità, per cui ammettere la propria fragilità o chiedere aiuto non è ammesso. Il risultato, nei casi più gravi, può arrivare fino al suicidio: è stato il caso, ad esempio, del portiere tedesco Robert Enke, che nel 2009 si tolse la vita al culmine di una lunga depressione aggravata da eventi dolorosi legati alla sua vita privata, a cui si sono aggiunte la pressione e la notorietà internazionale contribuendo a rendere intollerabile lo stress. Ma di depressione hanno sofferto anche il portiere italiano Gigi Buffon e il ciclista olandese Tom Dumoulin,mentre nel caso della stella incontrastata della ginnastica statunitense, Simone Biles, si è trattato di generali problemi di salute mentale a spingerla al ritiro dalle più attese finali alle Olimpiadi di Tokyo del 2021. Quando l’atleta ha spiegato di aver bisogno di occuparsi del proprio benessere psicologico esplose improvvisamente una bufera: una delle atlete più brillanti e ammirate al mondo, perfetta e inarrivabile, stava ammettendo una fragilità tale da farla desistere da una delle competizioni più ambite, in cui tutti si aspettavano la sua vittoria. Il problema improvvisamente risultò più diffuso e più grave di quanto si pensasse, sia nello sport di altissimo livello, sia tra tutti noi.
Tutti, infatti, siamo sottoposti alla pressione che deriva dalle incombenze più o meno importanti nella vita scolastica e poi professionale. Un ruolo fondamentale in questo malessere è quello della competitività che deriva da una sfrenata concorrenza; questa, a livelli moderati, è in realtà essenziale non solo sui campi da gioco, ma nella vita di tutti i giorni: aiuta ad esempio a risolvere i problemi, anche in modo creativo, e ci rende efficienti nel lavoro così come in tanti altri settori. Si potrebbe aprire una (grossa) parentesi sull’ossessione della produttività, oggi troppo spesso unico metro per valutare le persone, ma a piccole dosi la competitività e l’ambizione – specialmente per alcune persone – rappresentano una spinta positiva a migliorarsi, mettersi in gioco e cercare di raggiungere i propri obiettivi. Lo sport può essere in questo uno strumento educativo molto importante, allenando l’autostima e incanalando un sano desiderio di competizione nell’attività fisica, con i benefici che questa già di per sé comporta, tra cui la produzione di ormoni del benessere e del buonumore.
Questo discorso, però, per molte persone sembra valere soprattutto per gli sport di gruppo. Uno studio della California State University, infatti, ha rilevato che bambini e ragazzi che praticano sport di squadra hanno in genere meno probabilità di soffrire di depressione o ansia e sviluppano un benefico senso del gruppo, di solidarietà tra pari e benessere, rispetto a quelli che si dedicano ad attività individuali, proprio come il tennis o il nuoto, e che secondo lo stesso studio correrebbero quindi un maggior rischio di sviluppare problemi di ansia.
Questo non significa che questi sport siano dannosi o negativi, ma semplicemente che se intrapresi a livello agonistico, e in caso di una predisposizione (che però spesso non è così semplice da riconoscere), i ragazzi meritano un’attenzione diversa. I problemi, infatti, spesso intervengono per effetto di una concorrenza profondamente malsana, che ha effetto soprattutto sui giovani che non sono ancora attrezzati ad affrontarla, tanto più se stanno attraversando fasi delicate di costruzione e consolidamento della personalità come l’adolescenza, un periodo spesso difficile anche per l’autostima e l’immagine di sé, in cui si sente particolarmente forte il bisogno di approvazione. Se il desiderio di primeggiare raggiunge livelli eccessivi, gli esiti possono essere catastrofici. A volte a farne le spese possono essere anche gli avversari, che vengono fatti oggetto di sabotaggio: il mix esplosivo di competitività e gelosia, infatti, può arrivare al tentativo di impedire agli altri di realizzare i loro obiettivi, più che impegnarsi per raggiungere i propri, con varie sfumature di cui il caso della pattinatrice Tonya Harding – che nel 1997 cercò di far azzoppare una rivale prima della gara – è solo un estremo particolarmente drammatico e d’effetto; un estremo non così raro da raggiungere, dato che si è realizzato anche lo scorso anno, quando la centrocampista della nazionale francese di calcio Aminata Diallo è stata fermata con l’accusa di aver organizzato l’aggressione a colpi di spranga alla collega Kheira Hamraoui, con cui era in concorrenza per il posto da titolare nel Paris Saint-Germain.
Oggi, la situazione è particolarmente grave perché, come i ricercatori hanno sottolineato, il numero di competizioni a cui ogni individuo è costretto a prendere parte è aumentato nettamente rispetto al passato. La pressione scolastica viene seguita a ruota da quella universitaria, in una spinta a dimostrare a se stessi e agli altri di “non essere dei falliti” (qualsiasi cosa voglia dire) e nel tentativo di accaparrarsi un lavoro che sembra sempre più difficile da raggiungere. I media contribuiscono a tutto questo, dando risalto a laureati da record, che collezionano lauree, cosa che non fa che alzare l’asticella delle aspettative. Già nel 2015 un sondaggio condotto negli Stati Uniti rivelò che uno studente di Medicina su sette aveva considerato almeno una volta l’idea del suicidio, mentre uno su tre aveva avuto problemi di salute mentale, a dimostrazione di quanto lo studio presso settori competitivi e prestigiosi come l’ambito medico possano essere fonte di grande stress. Era già nota, per di più, la preoccupante incidenza di ansia e depressione tra gli studenti di Medicina, affrontata da uno su quattro di loro con ubriacature frequenti e dall’8% ricorrendo a sostanze per migliorare le performance di studio, attenzione e prontezza mentale. Anche al lavoro, poi, bisogna sempre dare il massimo, anche fuori orario, spinti dall’ansia di doversi dimostrare indispensabili e insostituibili, sapendo che la fila d’attesa dietro di noi è molto lunga. La pressione dei social media si aggiunge poi con una dose extra di senso di inadeguatezza, nutrito dall’impressione che gli altri abbiano una vita sociale molto più soddisfacente della nostra. Il senso di competitività sembra essere al suo massimo e in tanti non ne possono più: le Grandi Dimissioni tra i millennial di questi anni ne sono un effetto, come anche “l’epidemia di stress”.
Tra gli sportivi di alto livello sembrano più esposti coloro che sono all’apice della carriera, proprio nel momento in cui in tv sembrano eroi irraggiungibili, ma intanto all’ansia da ritiro si somma l’emergere di campioni più giovani che rischiano di metterli in ombra. La voce degli sportivi più famosi e coraggiosi nel dichiarare al pubblico la loro condizione ci ricorda non solo che non si tratta di idoli o divinità, ma di esseri umani che vanno considerati al pari di chiunque altro e rispettati per questo, ma anche che la salute mentale è un tema che merita molta più attenzione di quanta ne ha al momento……..(segue)
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