L’ortoressia nervosa è difficile da definire in termini clinici e non è stata clinicamente riconosciuta come disturbo della nutrizione e dell’alimentazione
L’ Ortoressia Nervosa (ON) è una manifestazione patologica di origine molto recente, che si è sviluppata in concomitanza con la formazione e la diffusione sempre più consistente di filosofie di vita salutiste (per esempio il vegetarianismo, il veganismo e l’alimentazione bio), nonché con un’attenzione della nostra società sempre più forte verso il mangiare sano.
Questa condizione è sempre stata difficile da definire in termini clinici: infatti non è stata ancora clinicamente riconosciuta come uno dei disturbi della nutrizione e della alimentazione, in quanto non sono ancora stati stabiliti dei criteri diagnostici validati per l’ ortoressia nervosa.
Il termine ortoressia nervosa è stato introdotto per la prima volta da Steven Bratman nel 1997 per indicare una fissazione patologica sul consumo di cibo sano, ossia una fissazione non salutare verso cibi salutari.
Il DSM-IV non riconosceva l’ ortoressia nervosa come un vero disturbo indipendente da altri, e non viene inserito in questi termini neanche nella nuova edizione del DSM-5: viene collocato insieme all’anoressia inversa all’interno dell’area del Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, categoria che indica un’anomalia della nutrizione e dell’alimentazione che si esprime attraverso una persistente incapacità di assumere un giusto apporto nutrizionale e/o energetico.
L’ ossessione per il “mangiare sano” tipica dell’ ortoressia va ad incidere negativamente sulla sfera relazionale, emotiva e corporea dell’individuo. Stando alla letteratura (Oberle et al., 2017) , l’esordio dell’ ortoressia nervosa è un condivisibile desiderio di mangiare meglio per avere una migliore forma fisica. Il nucleo patologico dell’ ortoressia risiederebbe in una serie di convinzioni distorte su ciò che è sano e nel senso di superiorità personale che deriva dal sottoporsi alle restrizioni alimentari derivanti.
A riguardo, nella scala EHQ (Eating Habits Questionnaire) troviamo i seguenti item: Le mie abitudini alimentari sono superiori a quelle degli altri; La mia dieta è migliore di quella di altre persone; Io cucino nella maniera più sana in assoluto; Io sono maggiormente informato rispetto agli altri riguardo al cibo sano.
L’ ossessione per il cibo sano si presenterebbe quindi, secondo Oberle (2017), non solo come una risposta facile alla paura della morte condita da letture semplicistiche della realtà, ma anche come un “automedicazione narcisistica” che protegge da un senso di inadeguatezza sociale. Come avviene quasi sempre parlando di disturbi mentali, anche in caso di ortoressia abbiamo l’instaurarsi di un circolo vizioso per cui proprio le ossessioni alimentari finiscono per alimentare isolamento sociale e difficoltà relazionali.
Ortoressia: filosofia di vita o disturbo?
Come è possibile discriminare una filosofia di vita da un disturbo alimentare, quale l’ ortoressia? A rendere difficile questa distinzione è la sovrapposizione, parziale o totale, degli aspetti fenomenici e direttamente osservabili, poiché una scelta accurata e selettiva degli alimenti può avere a che fare con l’adesione ad alcune pratiche culturali, ma può anche riguardare un rapporto di dipendenza dal cibo.
Esistono indicatori per cogliere la differenza? L’utilizzo dell’etichetta ortoressia,adatto più che altro nella comunicazione tra professionisti, non deve indurre a credere che sia possibile fare generalizzazioni. Infatti, la complessità di ciascun individuo non può essere ricondotta a criteri standardizzati né ridotta alla descrizione di un sintomo. È comunque possibile fare riferimento a criteri psicologici che consentano di cogliere i campanelli d’allarme di uno stile alimentare patologico. Nel caso specifico, alla base dell’ ortoressia può esserci la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute, talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: la paura assume le caratteristiche di un’ossessione per il cibo, il quale perde spesso la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.
A ciò si associa un allontanamento dalla dimensione del piacere che viene sostituita da quella del sollievo, possibile grazie alla rigidità delle regole e all’accuratezza della pianificazione alimentare. Comportamenti di questo tipo necessitano di una particolare attenzione agli ingredienti di ciascun cibo, di un’ispezione dettagliata delle etichette. Interviene inoltre una componente psicologica importante: entro una simbolizzazione del contesto del tipo “buono-cattivo”, gli alimenti non conosciuti o non accettati vengono vissuti come cattivi e in quanto tali minacciosi. Così, chi soffre di ortoressia arriva a privarsi di qualsiasi situazione sociale che possa ostacolare la conoscenza dei cibi e la ricerca di un’alimentazione sana e, sostanzialmente, quella che sembrerebbe una scelta finisce per diventare una gabbia, una torre di controllo e di rinuncia al confronto e allo scambio, a garanzia della propria sicurezza.
È bene evidenziare che non soltanto l’attenzione al cibo sano può avere alla base un disturbo alimentare. Esistono infatti altre pratiche, sempre più condivise, che possono nascondere un disturbo pur non avendo nulla a che fare con una dimensione patologica. È il caso, ad esempio, del breatharianismo (o respirarianesimo), una pratica collegata all’ascetismo orientale e secondo la quale è possibile nutrirsi di solo “prana”, una specie di nettare prodotto dalla respirazione che consente di apportare al corpo le necessarie energie senza bisogno di mangiare e, in alcuni casi, di bere. Ancora, chi pratica sungazing (o HRM) riferisce la possibilità di nutrirsi esclusivamente di “sole”, attraverso l’osservazione diretta di quest’ultimo. Entrambe le pratiche prevedono il digiuno o una forte limitazione nell’assunzione di cibo e liquidi. Le conseguenze fisiche correlate possono essere la disidratazione, la perdita di peso e, nelle donne, l’amenorrea, condizioni riscontrabili anche nell’anoressia nervosa.
In generale, è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una invece patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”? Se si pensa alla patologia secondo un modello dimensionale è impossibile parlare di normalità, dunque è impossibile discriminare in modo dicotomico sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono e, in altre parole, un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità. Ecco allora che la stessa pratica alimentare può essere sana o patologica: la differenza starà nella modalità con cui viene messa in atto, nel significato che le si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali se colti in tempo.
Nei disturbi alimentari, il cibo viene infatti utilizzato per comunicare un disagio difficile da esprimere altrimenti e in questo senso la riflessione proposta non ha il fine di demonizzare alcune pratiche alimentari piuttosto che altre, ma quello di accendere una luce sulla possibilità che alcuni disagi possano trovare nascondiglio e rifugio dietro un’appartenenza culturale legittimante e al tempo stesso rassicurante.
tratto da SofM ed elaborato