Studi sui bambini hanno dimostrato come l’attività fisica e lo sport abbiano degli effetti positivi sulle abilità cognitive.
L’ attività fisica ha degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale.
Lo sport e gli effetti sulle abilità cognitive
I bambini amano i giochi di movimento: correre, saltare, rincorrersi e utilizzare palle e palloni di varie dimensioni. Se vi è mai capitato di chiedere a studenti delle elementari e delle medie le loro materie preferite a scuola, spesso vi sarete sentiti rispondere “ginnastica” o “educazione fisica”. Inoltre, chi di voi ha figli o fratelli più piccoli sa come spesso i compiti scolastici vengano da loro tralasciati per partecipare agli allenamenti sportivi o per uscire a giocare con gli amici.
Ma il gioco e le attività sportive sono davvero gli antagonisti della preparazione scolastica? Oppure possono essere visti come un valido supporto allo sviluppo di quelle abilità cognitive, come ad esempio l’attenzione, la memoria e la capacità di pianificazione, che sono indispensabili per ottenere successi in ambito didattico?
Gli esperimenti Held & Hein 1963 con gli animali:
Held prese due gatti piccoli della stessa figliata. Di questi uno veniva lasciato libero ad esplorare l’ambiente mentre l’altro veniva guidato dal primo mediante un ingegnoso sistema di carrucole mentre il restante tempo della giornata lo passavano nel buio vicino alla madre. Risultati: dopo alcune settimane di questo trattamento: solo il gattino libero di esplorare è riuscito a utilizzare i dati forniti dall’ambiente stesso per formarsi un concetto del mondo esterno. L’altro reagiva in maniera casuale.
Altri dati sugli effetti che l’attività motoria ha sulle abilità cognitive provengono dagli studi che, soprattutto negli anni ’90, molti ricercatori hanno condotto su roditori di diverso tipo. Da questi studi è emerso come l’architettura cerebrale di topi “sportivi” sia differente da quella di altri roditori meno attivi (Tong et al., 2001).
Ad esempio, uno studio di Black e collaboratori (1990) confrontava i cervelli di ratti che erano stati allevati in condizioni di minimo stimolo motorio, con ratti che invece avevano avuto libero accesso a una ruota per correre, con altri che erano stati sottoposti ad esercizi obbligatori su tapis roulant (con difficoltà progressivamente aumentata) e infine con un gruppo sottoposto ad allenamenti acrobatici con percorsi fatti di travi, altalene e corde a difficoltà crescente. I topi dell’ultimo gruppo mostravano un aumento del numero delle sinapsi cerebrali e, insieme a quelli sottoposti all’allenamento con tapis roulant, avevano sviluppato una migliore irrorazione sanguigna del cervello: entrambi dati a favore di un miglioramento dell’attività cerebrale dei topini atletici!
Fordyce e Farrar nel 1991 dimostrarono, sempre grazie ad un esperimento su ratti diversamente allenati, come l’ attività fisica costantemente praticata avesse migliorato le funzioni dell’ippocampo e, di conseguenza, i risultati dei roditori in compiti che richiedevano l’utilizzo della memoria spaziale.
Pochi anni dopo, Neeper (1996) con i suoi collaboratori mostrò come l’ attività fisica nei topi producesse una maggior espressione di un gene regolatore della produzione della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor), responsabile della crescita del sistema nervoso, del buon funzionamento dei neuroni e della difesa di questi dai danni causati dai radicali liberi. Insomma, più un topo aveva corso durante la sua vita, maggiore era stata la produzione di neurotrofina.
Nel 2002, Cotman and Engessar-Cesar pubblicarono uno studio che indicava come la neurotrofina BDNF fosse coinvolta nei processi di apprendimento e di immagazzinamento di informazioni nella memoria a lungo termine. Inoltre è stato riconosciuto l’importante ruolo che questa neurotrofina ha nella prevenzione dello stress cronico (Duman et al., 2006) e della depressione (Martinowich et al., 2007), e nell’aumentare la plasticità cerebrale così da migliorare la resilienza a eventuali danni (Cotman e Berchtold, 2003). L’esercizio fisico genera quindi a cascata una serie di vantaggi al corpo umano dovuti alla produzione di BDNF: maggiore vascolarizzazione cerebrale, neurogenesi, modifiche dell’architettura neuronale e protezione dai danni cerebrali, soprattutto nell’ ippocampo, area centrale per la memoria e l’apprendimento (Cotman e Berchtold, 2003).
Gli studi sugli animali e sugli adulti hanno quindi fatto emergere un ruolo importante dell’esercizio fisico nella preservazione e nel miglioramento delle abilità cognitive.
Gli studi sui bambini
Cosa succede invece nei bambini? Nel 2003, Sibley e Etnier pubblicarono una meta analisi su 44 studi che indagavano la correlazione tra attività fisica e abilità cognitive nei bambini; dal loro lavoro emerse non solo una correlazione positiva tra attività motoria e cognizione, ma che l’effetto di miglioramento nella cognizione dovuto all’esercizio fisico era presente anche in soggetti con ritardo mentale o con disabilità fisiche. Questo dato inoltre faceva nuova luce su review precedenti che non avevano trovato associazioni tra l’esercizio fisico e il miglioramento cognitivo di bambini con difficoltà d’apprendimento: Bluechardt, Wiener e Shephard (1995) scrissero un articolo in cui dichiararono che programmi di attività motoria integrati con training per le abilità sociali in bambini con difficoltà di apprendimento non avevano un effetto migliore di altre forme di attenzione rivolte agli stessi nel miglioramento delle loro abilità intellettive; Shephard (1997) dimostrò come un programma di educazione fisica giornaliera migliorasse lo sviluppo psicomotorio, la rapidità della capacità di apprendere e i risultati accademici dei giovani studenti coinvolti, ma questo effetto non era ugualmente evidente nel caso di bambini con difficoltà di apprendimento.
Nel 2006 Nelson e Gordon-Larsen pubblicarono i dati di uno studio che coinvolgeva più di undicimila adolescenti (età media 15.8 anni) e che si proponeva di studiare le relazioni tra stili di vita sedentari, attività fisica e comportamenti a rischio in età adolescenziale; trovarono che gli adolescenti più attivi negli sport non solo avevano meno possibilità di incorrere in comportamenti rischiosi (assenteismo scolastico, fumare sigarette, usare droghe,…) ma inoltre avevano maggiori possibilità di avere alti profitti scolastici.
Similmente Sigfusdottir, Kristjansson e Allegrante (2006), in uno studio svolto in Islanda su più di cinquemila ragazzi tra i 14 e i 15 anni, trovarono che il rendimento scolastico dipendeva molto dal tipo di dieta seguita dai ragazzi, dal loro Indice di Massa Corporea (BMI) e dal tempo che dedicavano all’ attività fisica. Infatti gli adolescenti più attivi, magri e che si nutrivano in modo sano ottenevano un maggior successo scolastico. I ricercatori tenevano conto anche del sesso dei soggetti, della loro struttura familiare, del tipo di educazione a cui erano sottoposti in famiglia e la frequenza di assenze scolastiche.
Sempre in seguito alle preoccupazioni riguardo all’aumento dell’obesità infantile, uno studio americano del 2007 (Castelli et al., 2007) su bambini tra il terzo e il quinto anno di scuola ( età media di 9,5 anni) indicava che esercizio aerobico e BMI correlavano col successo scolastico, soprattutto nella lettura e nella matematica; dallo stesso studio risultava che l’esercizio fisico per aumentare la forza muscolare e la flessibilità non influiva sul miglioramento scolastico.
Davis (2007) in un primo esperimento su 94 bambini americani tra i 7 e gli 11 anni, in sovrappeso ma per il resto in buona salute, decise di dividere il target in tre gruppi, uno di controllo, uno sottoposto a venti minuti di esercizio al giorno (cinque volte a settimana per quindici settimane), e l’ultimo sottoposto a quaranta minuti di esercizio con la stessa frequenza. Prima e dopo le quindici settimane di allenamento fu somministrato a tutti i bambini una batteria di test per la valutazione dei processi cognitivi (Cognitive Assessment System, CAS): il gruppo sottoposto a un allenamento intenso (quello dei quaranta minuti al giorno) ottenne un notevole incremento dei punteggi al test alla fine delle quindici settimane dando prova del fatto che l’esercizio fisico fosse un buon metodo per migliorare le abilità cognitive e sociali nei bambini.
La stessa Davis nel 2011 diede una ulteriore conferma ai risultati dei suoi studi pubblicando una ricerca che aveva lo stesso disegno sperimentale ( 171 bambini sovrappeso tra i 7 e gli 11 anni divisi in tre gruppi: uno di controllo, uno con sessioni di esercizio di venti minuti, uno con sessioni di quaranta, per circa tredici settimane) ma che aumentava i test pre e post esercitazione e che introduceva anche una valutazione con risonanza magnetica funzionale; l’esercizio fisico migliorava i risultati ai test matematici e ai test valutanti le funzioni esecutive, dato supportato da un aumento dell’attività corticale prefrontale bilaterale riscontrata durante la risonanza magnetica funzionale.
Nel 2008 uno studio di Budde e altri svolto in Germania su ragazzi tra i 13 e i 15 anni riscontrò che anche attraverso una serie di sessioni intense di esercizi di coordinazione (quindi non solo con l’esercizio aerobico descritto negli studi precedenti) si possono ottenere miglioramenti significativi a test che valutano le capacità attentive.
L’esercizio fisico inoltre influisce sulla memoria di lavoro, cioè la facoltà di tenere a mente le informazioni utili ai compiti che si stanno svolgendo, e sul controllo inibitorio delle risposte inadeguate al compito, importanti aspetti delle abilità cognitive coinvolte nei processi di apprendimento (Scudder et al, 2015). Di recente uno studio svolto in Israele (Zach et Shalom, 2016) su venti adulti ha mostrato grandi effetti sulla memoria di lavoro dopo delle sessioni di due ore di pallavolo.
Gli effetti di anche solo cinque minuti di intensa attività fisica provoca un miglioramento delle funzioni esecutive anche in bambini con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD) (Gawrilow et al., 2016).
Abbiamo quindi ricavato dagli studi fin qui riportati come l’ attività fisica abbia degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale. Si è visto che tutto ciò corrisponde, spesso in modo significativo, a un miglioramento delle prestazioni scolastiche nei soggetti giovani che praticano attività fisica.
Sfruttando questi miglioramenti dovuti allo sport, Benso (2004) ha istituito un protocollo di riabilitazione dei disturbi specifici dell’ apprendimento (DSA) e del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD) basato su esercizi atti a rafforzare le abilità cognitive di base (memoria lavoro, percezione visiva, attenzione divisa, attenzione sostenuta, …) e il funzionamento del Sistema Attentivo Supervisore (SAS; Shallice, 1989) affiancato a una costante attività sportiva. Infatti secondo l’autore il deficit delle prestazioni nei soggetti DSA è dovuto a debolezze del SAS e dei moduli da questo controllati, in particolare l’attenzione (Benso; 2005); i soggetti DSA vengono quindi considerati bambini con debolezza attentiva, similmente al disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Rafforzando i moduli, viene rafforzato anche il SAS e si ottengono miglioramenti nelle prestazioni deficitarie. L’attività motoria prevista nello sport, nelle arti e nel gioco, oltre ad essere utile al fine riabilitativo, è anche piacevole per i bambini e tale piacevolezza aumenta la motivazione al trattamento. Si richiede però che l’allenatore o istruttore sportivo sia un professionista, adeguatamente preparato e formato, che sappia quali funzioni sta andando ad allenare nel bambino con debolezza attentiva; l’istruttore deve essere in grado di allenare i moduli del bambino stimolandolo al limite delle risorse, senza però eccedere rendendo il compito frustrante: infatti un esercizio eccessivamente difficile avrebbe ricadute gravi sulla motivazione e sull’autostima.
L’istruttore deve anche essere a conoscenza che lavorare al limite delle risorse genera irritabilità; è di grande efficacia la scelta di un programma tarato sull’età e sulle capacità del bambino, che non preveda sedute passive di allenamento ma dedichi molta attenzione all’apprendimento dei movimenti fondamentali: questi infatti, se imparati, scomposti, velocizzati e automatizzati, renderanno possibile la flessibilità di composizione di atti motori complessi efficaci. Questo è valido sia che l’attività sia sportiva o artistica: l’importante è evitare ambienti eccessivamente agonistici e gli sport di squadra; nello sport di squadra infatti la pressione dei compagni a giocare bene può incidere sull’autostima del bambino: meglio scegliere attività da svolgere in gruppo o in solitaria come il tennis o le arti marziali. Questo porterà a un aumento dell’attenzione sostenuta, della concentrazione e del controllo, capacità che potranno essere trasferite anche al di fuori dell’ambito artistico/sportivo.
Conclusioni: gli effetti benefici dell’ attività fisica sulle abilità cognitive
Abbiamo quindi trovato una risposta supportata dai dati della letteratura alla nostra domanda iniziale: le attività sportive e ludiche caratterizzate da attività fisica non sono antagoniste della preparazione scolastica; sostenendo lo sviluppo delle funzioni esecutive, possono essere considerate un aiuto al miglioramento delle prestazioni didattiche, pure in soggetti con difficoltà di apprendimento.
tratto ed elaborato da SdM