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Imparare e non subire!! COVID 19

E SE NON AVESSIMO IMPARATO NULLA DAL COVID-19? 

Foto-by-Charles-Deluvio-on-Unsplash-scaled

di Lorenzo Gagliardi

Nella notte tra il 18 e il 19 Marzo, alcune tristi immagini da Bergamo facevano il giro del mondo (Corriere della Sera 2020): una carovana di mezzi militari trasportava 65 salme, tutte vittime del coronavirus, presso un forno crematorio fuori città. Oggi, circa 4 mesi dopo, vediamo immagini diverse, senz’altro più serene, leggere, ma altrettanto spaventose. Spiagge soleggiate e affollate da bagnanti dal Regno Unito fino alla Russia (BBC News 2020, Euronews 2020), piazze ripopolate da turisti (The Jakarta Post 2020) e locali stracolmi (La Stampa 2020), persino nei paesi più colpiti dalla crisi sanitaria.

Ma non tutti rispettano le regole. Lungi da noi fare una nuova caccia alle streghe, trasformando i runners di pochi mesi fa negli attuali bagnanti senza mascherina. Infatti, come suggeriscono Pacilli e Pagliaro (2020), stare di guardia affacciati al balcone, armati di smartphone e pronti a fare la “morale” alle persone che non si attengono alle regole di sicurezza non è una strategia efficace, poiché non fa altro che disunire e distruggere il senso di collettività che abbiamo provato a costruire durante il lockdown, con i flashmob da un balcone all’altro.
Cerchiamo piuttosto di fare alcune riflessioni per capire perché non tutti hanno imparato la lezione.

 

Un nuovo, ma vecchio rischio

Mentre molti governi di tutto il mondo allentano le misure restrittive e i cittadini riscoprono le proprie libertà, corriamo un pericolo che è nuovo, ma al contempo vecchio: quello di sottostimare il rischio. Durante il lockdown il messaggio era tragicamente molto chiaro: il nuovo coronavirus può avere conseguenze tragiche su di voi e sui vostri cari. La copertura mediatica sul numero di morti e la caccia spasmodica ai nuovi focolai, combinate ai duri provvedimenti normativi, rendevano il rischio molto facile da tenere a mente.

Ma ora che il virus sembra aver allentato la presa su molte nazioni e si registrano sempre meno morti, è rimessa al cittadino la responsabilità di calcolare il rischio delle proprie azionia quanto rischio mi espongo se ceno in un ristorante? E se entro in un bar senza mascherina? Chissà se i miei amici rispettano le regole come faccio io. Dovrei accettare il loro invito a uscire?

Foto-di-Marco-Testi-on-Unsplash-1

Come le scienze cognitive hanno dimostrato, non siamo particolarmente bravi a fare questi calcoli. Infatti, da un lato, sono stime complesse che richiedono molte informazioni. Dall’altro, tendiamo ad affidarci ad alcune regole semplificatrici, le famose euristiche, che in determinate situazioni ci inducono in errori di calcolo sistematici, ovvero i bias (per qualche informazione in più, vi segnaliamo il nostro articolo “Cosa sono i bias cognitivi“.

L’euristica della disponibilità

Una delle euristiche che più di altre ha contribuito alla percezione del rischio negli ultimi mesi è l’euristica della disponibilità (Tversky & Kahneman 1973): una scorciatoia mentale che ci permette di stimare la probabilità che un evento si verifichi non sulla base di dati statistici, ma sulla base di informazioni che ci vengono in mente con più facilità, come ad esempio una storia o un aneddoto.

È così che stimiamo la probabilità di contrarre la malattia quando siamo fuori di casa: non calcoliamo la probabilità che i nostri amici abbiano il virus, ma, ad esempio, pensiamo a quella notizia letta su Facebook di come un tale ha trasmesso la malattia alla sua comitiva durante un’uscita in piazza. Lo facciamo perché è un’informazione più facile da riportare alla memoria, è più saliente.

Ma adesso che, fortunatamente, le notizie su feste super contagiose e focolai esplosivi sono sempre meno diffuse e più lontane nel tempo, ci viene più difficile ricordarle. Sono per l’appunto “meno disponibili”. Senza questa bussola, rischiamo di sottostimare il rischio, dimenticandoci la mascherina a casa e avvicinandoci pericolosamente agli altri. Se questa storia vi suonerà familiare, non sorprendetevi: è per certi versi simile alla situazione in cui ci trovavamo prima del lockdown. Poche informazioni chiare, un eccesso di ottimismo (optimism bias), la voglia di vivere la vita di sempre. Certo, molte più persone oggi sono più sensibili alla tematica, ma come dimostrano le immagini che citavamo all’inizio, evidentemente non è abbastanza. È possibile che ci siamo già dimenticati di ciò che abbiamo passato?

Intorpidimento psichico

Un’altra possibile spiegazione ci viene proposta dalla psicofisiologia del rischio. Lo psicologo Paul Slovic (2011), prendendo le mosse dalla legge di Weber su come percepiamo gli stimoli ha teorizzato un concetto definito come psychic numbing (che potremmo tradurre come “intorpidimento psichico”). L’idea è che più siamo costantemente esposti a informazioni su un particolare rischio, ad esempio attraverso la comunicazione di massa, più diventiamo insensibili all’argomento.

Foto by MarcoTesti on Unsplash

Il fenomeno è stato usato per spiegare come diventiamo sempre meno compassionevoli di fronte al numero dei decessi che aumentano di giorno in giorno (collapse of compassion), ma anche come diventiamo meno sensibili al rischio. Come suggeriscono Fetherstonhaugh e colleghi (1997), l’intorpidimento psichico sviluppato nei mesi di quarantena può portarci oggi a comportamenti rischiosi.

Il ruolo dei media e della comunicazione

Entrambe le ipotesi presentate implicano un ruolo attivo da parte della comunicazione di massa. Telegiornali, social media e radio continueranno a svolgere una parte fondamentale nel modo in cui costruiremo la percezione del rischio in questa strana vita dopo il Covid-19.

Non è di certo una novità che i media abbiano la tendenza a riportare le notizie da una prospettiva sistematicamente pessimista (Soroka et al 2019). Lo fanno perché una cattiva notizia vende meglio di una buona notizia, ancora una volta a causa di un nostro bias cognitivo (negativity bias). Ma non è detto che questa sia la giusta strategia per prepararci al meglio ai futuri rischi.

Gli sforzi della ricerca dovrebbero adesso concentrarsi per capire quale sia il migliore frame che l’informazione deve utilizzare nel veicolare i rischi della malattia, e non solo! Sono numerose le minacce che presentano rischi altrettanto reali per la società, sebbene siano comunicati in modo meno efficace rispetto al Covid-19. Ad esempio, come già suggerisce Pirraglia (2020), i rischi connessi all’inquinamento globale non sono salienti tanto quanto quelli della pandemia, e ciò è dimostrato dalla nostra diversa propensione a rinunciare ad alcuni benefici per risolvere la problematica.

Nel caso del virus, siamo stati giustamente disposti a cedere parte delle nostre libertà personali nel giro di pochi giorni. Perché per l’inquinamento non riusciamo ugualmente a rinunciare ad alcuni benefici (come l’utilizzo delle automobili)? L’ipotesi è che le strategie di comunicazione sulla questione ambientale non siano sufficientemente efficaci.

Educare al rischio

Inoltre, la comunicazione potrebbe non bastare. Come suggerisce Gigerenzer (2020), quello in cui vivremo dopo il coronavirus sarà un mondo fatto di incertezze, con le quali dovremo imparare a convivere. Sebbene abbiamo evidenti tendenze a commettere errori di calcolo in situazioni di incertezza, abbiamo comunque la possibilità di apprendere gli strumenti necessari per misurare i rischi, arginando così i nostri bias: la statistica, le probabilità, il pensiero critico, e, più in generale, il metodo scientifico.

La comunicazione e le applicazioni dell’economia comportamentale, come il nudging, potranno anche limitare i nostri errori, ma scontano l’impossibilità di agire sempre, in modo ubiquitario. L’educazione al pensiero critico, invece, potrebbe fornire alle persone un metodo che le renderebbe in grado di comprendere efficacemente il rischio e di effettuare scelte informate.

Dunque, sebbene molte cose siano cambiate dall’inizio della pandemia, altre invece sono rimaste pressoché identiche. E probabilmente, ciò che proprio non cambierà mai è il bisogno di una strategia istituzionale di comunicazione e di educazione al rischio, a livello integrato e basata sulle evidenze scientifiche.

Come segnalato da De Cicco (2020), l’incertezza che deriva dalla mancanza di una comunicazione precisa e puntuale è un “terreno fertile per far fiorire la disinformazione”, dalla quale si diramano ulteriori fonti di rischio (si pensi alle fake news sui rimedi homemade contro il virus). In altre parole, le “calde raccomandazioni” del Governo non bastano più, poiché c’è una relazione diretta tra la libertà e i rischi a cui si espone la società. E questa non dipende (soltanto) dal senso civico delle persone, ma anche e soprattutto dai limiti della nostra cognizione.

Bibliografia:

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