La mente sotto pressione: dal campo di gara alla vita quotidiana

Non mi interessa l’etichetta di “psicologo”, così come viene intesa comunemente e da cui prendo largamente le distanze. Allo stesso modo, non mi interessa la definizione di “mental coach”: una sorta di “condanna” che mi porto dietro da quando, quasi vent’anni fa, è nato il mio sito. Allora quel termine era pressoché sconosciuto, oggi invece è inflazionato e spesso svuotato di senso. Per questo preferisco descrivermi attraverso ciò che faccio e le basi personali e scientifiche sulle quali mi muovo. Non c’è niente di autocelebrativo ma piuttosto l’ idea di un contributo concreto ad argomenti trattati in modo “foggy”.

Il mio percorso parte dalla medicina, attraversa la clinica e la psicopatologia, fino a concentrarsi sul funzionamento della mente sotto pressione, la Peak Performance e lo stato di “Flow”. È lì che individuo il punto cruciale: come l’essere umano, quando si trova in condizioni di stimolazione intensa, riesce (o non riesce) a gestire se stesso. Lo sport è diventato il palcoscenico privilegiato di questa osservazione, perché in esso la pressione è visibile, concreta, quotidiana come in altre situazioni. E a questo si è aggiunta una mia passione personale primaria per quel settore. Sono dinamiche osservabili, misurabili, eppure spesso considerate accessorie, come se la questione fosse solo di tecnica o di forza fisica e si desse al fattore mentale il significato di “caso”. In realtà, negare l’impatto della mente significa ignorare un quantitativo infinito di studi e ricerche qualificate che dimostrano un’evidenza semplice: arrivati a un certo livello, il 90% della differenza la fa la testa. Questo “oggetto” impalpabile ma determinante. D’altra parte se il Padre Eterno ha messo la testa sopra a tutto un motivo ci deve pur essere. E un altro salto di qualità lo avemmo quando diventammo esseri viventi con un foro di ingresso e uno di uscita del….cibo. Ma questa è un’ altra storia!

Nello sport convergo con l’atleta e con lo staff fino all’ organismo societario, in un obiettivo dichiarato: vincere. Cosa affatto semplice. Ma la vittoria, per me, ha un significato più intimo. Vincere significa portare a un livello quasi perfetto la conoscenza e la gestione dei propri meccanismi interiori: saper controllare l’attenzione, canalizzare l’energia mentale, trasformare la pressione in carburante invece che in ostacolo. È un discorso che può sembrare filosofico, ma in realtà è profondamente scientifico.

La verità è che non riguarda solo lo sport. Ogni ambito umano è fatto di prestazioni, vivere è, infine, una prestazione che possiamo fornire con atteggiamento proattivo o passivo.. Pensiamo a una sala operatoria: il chirurgo, l’anestesista, il ferrista. Lì non conta soltanto il numero degli interventi portati a termine — il dato che tanto sta a cuore ai direttori generali — ma conta la qualità con cui quelle persone sono in grado di portarli avanti sopratutto la qualità che ogni giorno si riesce a migliorare. Certo noi assistiamo a miglioramenti tecnici unici ma gli operatori in senso lato migliorano o cercano di farlo? E ciò che i direttori generali non comprendono è che, persino puntando solo sulla produttività, questa potrebbe aumentare se fosse accompagnata da una maggiore condizione di benessere. Un benessere che, oltre a incrementare i risultati, costituirebbe anche un riparo contro i disastri che inevitabilmente si generano quando la pressione non è gestita. La disorganizzazione per esempio crea malessere e rallenta i processi oltre a peggiorare la vita del singolo. Quindi si cresce forse , ma forse potremmo fare di piu’ e meglio!

Ed è qui che lo sguardo deve allargarsi. Perché la stessa dinamica vale nelle banche, nelle amministrazioni comunali, negli ospedali. In questi contesti non si comprende ancora come massimizzare le risorse umane al di là della casualità o altri criteri che nulla hanno a che vedere con l’ efficienza come la intendiamo concettualmente. Si continua a parlare di efficienza e di miglioramento, ma i sistemi, sopratutto in Italia, sono costruiti in modo tale da produrre sistematicamente inefficienza. Non per caso: per struttura. Le banche sono dominate dagli economisti, le amministrazioni pubbliche dai politici e dai tecnocrati, gli ospedali da manager che ragionano sempre con la stessa aridità numerica e non si chiedono mai davanti ad un miglioramento dei numeri se questi potevano migliorare di più. Economisti, politici, burocrati, tecnocrati: categorie che, salvo rarissime eccezioni, sono una sorta di iattura dalla quale sembriamo incapaci di liberarci. A queste figure non interessa l’uomo, perché l’uomo nella sua essenza non rientra nei loro parametri. È visto come una perdita di tempo, come un ostacolo. Eppure, se fossero dotati di vero sguardo, comprenderebbero che garantire qualità autentica — affidata a professionisti competenti e consapevoli — aumenterebbe non solo la qualità della vita delle persone, ma anche la produttività complessiva dei sistemi che governano.

Un esempio concreto: finché ho lavorato in università, oltre al servizio di consulenza psicologica per studenti, ho ideato e gestito un progetto aggiuntivo, “Coach for Student”. Non era rivolto a patologie o sintomi, ma alla performance nello studio: studenti che volevano migliorare il metodo, che si bloccavano sugli esami, che dovevano imparare a gestire i propri processi cognitivi ed emotivi. Non era un vezzo personale, ma un atto operativo. I risultati erano tangibili: studenti che si sbloccavano, famiglie che risparmiavano costi, università che vedeva crescere l’efficienza nel portare a termine i percorsi di studio. È la dimostrazione pratica che lavorare sui processi della mente ha effetti sistemici, non solo individuali. Ma al mio ritiro quel servizio è scomparso, liquidato come un’iniziativa marginale. Nessun dolore sia chiaro, solo osservazione. In compenso, oggi proliferano convegni pomeridiani, serate nei teatri, corsi di formazione improvvisati: iniziative di facciata, spot pubblicitari per istituzioni e organizzazioni che non vogliono affrontare il problema alla radice.

Questo è il cuore del malinteso. Si pensa che basti un intervento-spot per dimostrare attenzione, ma non si comprende il reale impatto. È la cultura italiana: a differenza dei paesi anglosassoni o nordici, dove la pianificazione è centrale, qui prevale il bisogno di “fare rumore”, di dare visibilità all’evento che si organizza Se vai ad una serata con Velasco ascolti quello che pensa e quello che fa ma non diventi lui e anzi ti senti cosi’ lontano da lui che quasi diventa frustrante. Naturalmente il giorno dopo l’ aforisma sugli alibi lo ripeti come slogan perchè poi nel concreto procedi come prima. Ma Velasco ha una visione che si regge su una filosofia che esiste e nella quale crede. Eppure i grandi numeri lo dimostrano: assenteismo, burnout, mobbing, caos nei pronto soccorso, lasciamo perdere l’. Amm. Pubblica etc. Certo, formalmente è il lavoratore che si assenta, ma quanto pesa l’organizzazione o meglio la disorganizzazione nel generare la possibilità stessa di quell’assenteismo? Quanto pesa il malessere che gli operatori sanitari portano addosso quando vivono in ambienti confusi e mal gestiti?

Gestire questo malessere non è cedimento umano, non è lassismo ma spesso chi ci prova finisce effettivamente con il diventare lasso. Comprendo come, soprattutto in Italia, uscire da schemi aridi e meccanici venga spesso visto come una debolezza o come un modo per negoziare ogni cosa. Ma non è così. Le regole di ingaggio devono essere condivise e devono riguardare esclusivamente l’operatività e la produttività, intendendo per produttività il risultato concreto che ciascuna persona è chiamata a fornire. È chiaro che l’atteggiamento sindacale è legittimo e condivisibile nel suo campo, perché tutela altri aspetti contrattuali e organizzativi; ma non appartiene al mio mondo. Io mi occupo di un’altra cosa: massimizzare i rendimenti individuali, facendo comprendere che il benessere non è un lusso, bensì una condizione generata dalla gestione consapevole, oltre che dalle caratteristiche personali. Garantire questa condizione significa aumentare produttività, qualità della produzione e, di conseguenza, risultati. Perciò, a chi dovesse vedere in questo un cedimento o una resa, rispondo con chiarezza: la mia posizione è molto più vicina allo spirito del Corpo dei Marines che non a quello di un corpo sindacale. Sono molto piu’ vicino (con molta approssimazione) a Rhonda Chornum o Joko Willink di Discipline is Freedom, che a una sigla.

Io non mi interesso di tutto. Mi interesso di una cosa sola: massimizzare l’essere umano sotto pressione perchè ne abbia un vantaggio. E da lì derivano tutte le altre osservazioni, siano esse sullo sport, sulla medicina, sulla scuola o sulle organizzazioni, su fatti quotidiani. Cercate di capire come funzionate, funzionerete meglio. Perché migliorare la consapevolezza e la gestione di sé non è un vezzo. È un modo concreto per elevare il funzionamento individuale e, di conseguenza, quello collettivo. In un mondo che esalta il mercato ma lo interpreta nel modo più arido e cieco, questa è l’unica vera via per garantire equilibrio, qualità e benessere.


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