Pete Hegseth a Quantico:lezioni dalla peak performance per il “rigore” militare

Voglio premettere con chiarezza che quanto segue non ha alcuna valenza politica. Non è un giudizio sull’operato del governo americano, né un commento ideologico sul Segretario della Difesa Pete Hegseth o sull’amministrazione di cui fa parte. È piuttosto la riflessione di un medico con diverse specializzazioni e un solido background accademico, che da anni si occupa di peak performance e mind optimization. Il mio lavoro, infatti, è osservare, analizzare e interpretare i fattori che permettono all’essere umano di esprimersi al massimo livello, sia nello sport d’élite che in altri contesti di alta responsabilità, laddove la pressione è costante e la tolleranza all’errore è minima. Questo lavoro e’ sostenuto da una instancabile curiosità che mi ha sempre condotto a documentarmi su tutto quello che mi pare possa arricchire in qualche modo la mia e la vostra conoscenza. Direi che sia la prima volta che mi capita “qualcosa” che deriva dal mondo politico e di un’ altro paese. E questo mi ha colpito soprattutto perché è l’ oratore che si appropria di concetti dal mondo della prestazione in senso generico.

Con questo sguardo ho letto e studiato con attenzione il discorso che Pete Hegseth ha pronunciato presso la base dei Marines a Quantico. È stato un intervento che ha colpito, perché — a differenza di molte allocuzioni istituzionali spesso dominate dalla retorica — ha saputo proporre spunti concreti, diretti, quasi spigolosi. In un contesto ufficiale ci si aspetta parole misurate e concilianti; qui, invece, sono emerse affermazioni dure, provocatorie, per certi versi persino scomode.

Hegseth ha parlato senza mezzi termini di “decenni di decadimento” che avrebbero indebolito la forza e la leadership delle forze armate. Ha denunciato un sistema appesantito da distrazioni, regole ridondanti e priorità considerate distorte, promettendo di “ripulire il campo” da ciò che ostacola la missione primaria: prepararsi a combattere e vincere. Un approccio netto, privo di sfumature consolatorie, che ha riportato al centro l’essenza della funzione militare.

Uno dei passaggi più incisivi è stato quello sulla condizione fisica dei quadri militari. Hegseth ha definito “inaccettabile” la presenza di “generali sovrappeso” o di comandanti fuori forma. Non si è trattato di un attacco superficiale all’aspetto esteriore, ma di un’affermazione con forti implicazioni psicologiche e simboliche. La forma fisica, ha sottolineato, non è un dettaglio estetico: è la prova visibile di disciplina, autocontrollo e capacità di sostenere la pressione. In questo senso, il corpo non è soltanto strumento di prestazione, ma anche testimonianza quotidiana di valori interiori.

Accanto alla denuncia, sono arrivate proposte concrete. Hegseth ha annunciato l’innalzamento degli standard fisici per i ruoli di combattimento, da applicare senza differenze di genere; la riduzione di formazioni giudicate dispersive; la revisione di regolamenti percepiti come eccessivamente burocratici; e una ridefinizione del concetto di leadership, intesa non come privilegio ma come responsabilità verso i propri uomini e donne. La missione, ha ribadito, deve sempre precedere l’individuo. Un comandante non guida per il proprio status, ma per la capacità di creare condizioni in cui gli altri possano dare il meglio.

Naturalmente non possiamo dimenticare che si tratta di un discorso politico-istituzionale. La sua traduzione in pratica aprirà inevitabilmente discussioni, resistenze, negoziazioni. Questo è per niente interessante. Da studioso della prestazione umana questo aspetto non mi interessa. Ciò che ritengo centrale sono i principi universali che emergono da quelle parole: principi che appartengono alla psicologia della performance e che possono essere traslati al contesto militare, allo sport, e a qualunque scenario in cui l’uomo è chiamato a rendere al massimo sotto pressione.

Il primo principio è che la disciplina è la condizione della libertà. Hegseth lo ha espresso in chiave militare, ma il concetto è valido ovunque: senza rigore non c’è spontaneità, senza struttura non c’è vera creatività. Nel mondo dello sport, la naturalezza che si osserva in una giocata o in un gesto tecnico spettacolare nasce da migliaia di ripetizioni meticolose, eseguite con costanza. La libertà di improvvisare, di osare, è sempre figlia di un ordine interiore.

Il secondo principio è la resilienza attiva. Non basta resistere e sopportare. La resilienza, per essere efficace, deve trasformare l’urto della difficoltà in energia nuova. Il Marine in missione e l’atleta olimpico in gara vivono la stessa dinamica: il gesto tecnico è acquisito, ma è la pressione a decidere se quel gesto si spezzerà o si libererà. La caduta, in questo senso, non è mai un punto finale, ma un inizio, una possibilità di rinascita e di rigenerazione.

Il terzo principio riguarda la missione come senso condiviso. L’individuo, isolato, è fragile. È la missione che orienta, che dà direzione, che trasforma la fatica in valore. Nei Marines, questa missione coincide con l’onore del corpo; nello sport, con l’obiettivo comune della squadra o con una visione personale che va oltre il singolo risultato. Senza missione, la prestazione perde significato, diventa vuota ripetizione.

Il quarto principio è la leadership come servizio. Non è autorità imposta dall’alto, ma responsabilità nel costruire contesti che sostengano e potenzino gli altri. Un leader che non si assume il compito di creare condizioni favorevoli alla performance altrui non è un leader autentico. Questo vale in un corpo militare, ma altrettanto in una squadra sportiva o in un gruppo di lavoro di alto livello.

Questi principi trovano riscontro in molta della letteratura scientifica e culturale dedicata alla prestazione. Terry Orlick, in In Pursuit of Excellence, ha mostrato come il gesto tecnico resti invariato tra allenamento e gara, ma venga trasformato dal contesto, dalla pressione, dall’attenzione e dalle conseguenze in gioco. Jim Afremow, in The Champion’s Mind (Mente da campione nell’edizione italiana), ha proposto strumenti pratici: routine mentali, allenamento dell’attenzione, strategie di fiducia e concentrazione. James Kerr, in Legacy, ha descritto la cultura degli All Blacks come fattore decisivo: regole nette, rituali quotidiani, linguaggio condiviso che cementa il gruppo e trasforma il talento individuale in forza collettiva. In tutti questi autori emerge un filo conduttore: tecnica e talento sono necessari, ma è la mente — individuale e collettiva — a determinare l’esito quando la posta in gioco è altissima.

Il mio lavoro si colloca nello stesso orizzonte, con l’aggiunta di una prospettiva medica e accademica. In Oltre ogni Vittoria ho mostrato come la disciplina non sia negazione ma liberazione: solo chi accetta regole interiori costanti può esprimersi con autenticità e spontaneità. In Performance ho ridefinito la resilienza come forza trasformativa, non come mera sopportazione. In Primum Non Nocere ho sottolineato che il rigore non deve mai trasformarsi in oppressione, ma in energia liberata. In Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero ho legato la prestazione alla dimensione simbolica, mostrando come la bellezza effimera del ciliegio e l’onore del guerriero possano trasformare la fragilità in forza.

Prima di concludere, una battuta: voglio rassicurare sul mio stato di forma e sul fatto che mi alleno sempre.

Che un discorso politico-istituzionale come quello di Quantico abbia toccato concetti così vicini alla scienza della prestazione dimostra quanto questi principi siano universali. Probabilmente la spiegazione sta nel vissuto personale di Hegseth, che conosce dall’interno la realtà militare. Per me, resta soprattutto uno spunto: un’occasione per riflettere ancora una volta sui fondamenti della peak performance. Leggere discorsi, osservare interviste, cogliere segnali anche da ambiti lontani dal proprio è un metodo prezioso per affinare la propria pratica e consolidare convinzioni. È ciò che faccio io nel mio lavoro, ed è ciò che ogni allenatore, dirigente o tecnico dovrebbe fare: attingere a fonti diverse, rielaborarle e trasformarle in principi applicabili. Alla fine, però, tutto converge su un punto: il cuore della prestazione è sempre l’atleta. È lui, o lei, a rendere reale l’insieme di disciplina, resilienza e missione. È lì, nel gesto concreto sotto pressione, che la peak performance prende vita. Ed è lì che ogni riflessione, qualunque sia il contesto da cui provenga, deve trovare la sua prova finale.

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