Il caso FocusCalm: tra marketing, geopolitica e una tecnologia che esiste ….da mezzo secolo!

Negli ultimi giorni è circolata la notizia che la Cina avrebbe hackerato i dati cerebrali di atleti di élite, tra cui Jannik Sinner, raccolti tramite un dispositivo chiamato FocusCalm. La narrazione è potente: una startup incubata a Harvard, un’app capace di leggere il cervello, atleti di livello mondiale e un governo straniero pronto a sfruttare quelle informazioni per costruire un esercito di supersoldati. Peccato che, dietro questa trama da film, ci sia molto poco di nuovo e molto di vecchio.
Il cosiddetto FocusCalm non è altro che una fascia EEG consumer collegata a un’app che propone esercizi di rilassamento e concentrazione. Una versione digitalizzata di tecniche di biofeedback che risalgono a più di quarant’anni fa. A partire dagli anni Sessanta, pionieri come Joe Kamiya, Neal Miller, Barbara Brown o Elmer Green mostrarono come fosse possibile insegnare a una persona a regolare volontariamente parametri fisiologici come attività cerebrale, conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, temperatura periferica o tono muscolare. Da lì le applicazioni cliniche si diffusero rapidamente: trattamento dell’incontinenza urinaria, gestione delle cefalee tensive, riduzione dell’ansia e dello stress.
Il principio è sempre lo stesso: si registra un parametro, si stabilisce un livello base, si fornisce un feedback sonoro o visivo e si addestrano le persone a mantenere quei valori entro soglie prestabilite. Una tecnica scientificamente solida, consolidata in decenni di pratica clinica e sportiva, che oggi viene ripresentata con il maquillage dell’app, del cloud e della grafica gamificata.
Quella sotto e’ Judy Spray una tra le prime “clienti” trattate con Biodeedback (anni 70)

Ed è proprio qui che la narrazione diventa caricaturale: basta infilare due parole in inglese (“Focus”, “Calm”), citare Harvard in apertura, aggiungere una bella app colorata e sembra di aver scoperto dove finisce l’universo. In realtà, la sostanza non è cambiata di una virgola: siamo sempre di fronte al vecchio biofeedback, solo con un packaging più trendy.
L’idea che i dati EEG registrati da una fascia di consumo possano svelare i segreti cognitivi di un atleta o addirittura trasformarsi in materiale strategico per la difesa di una superpotenza è quanto meno discutibile. I segnali ottenuti da questi dispositivi sono a bassa risoluzione, capaci di restituire trend generali di attivazione o rilassamento, non certo mappe cerebrali in grado di formare un soldato migliore.
La vera questione non è il furto dei dati, ma la capacità che ha oggi il marketing di rivendere come novità epocali tecniche già ampiamente conosciute. Il biofeedback funziona, ed è uno strumento utile tanto per la clinica quanto per lo sport. Ma non c’è nulla di rivoluzionario. Dire che i cinesi abbiano rubato i “segreti cerebrali” di Sinner equivale più a un’operazione mediatica che a un fatto scientifico.
In psicofisiologia le grandi invenzioni sono già state fatte. Oggi restano utili implementazioni e applicazioni, ma non serve trasformarle in favole di spionaggio. La scienza non ha bisogno di sensazionalismo: ha bisogno di memoria storica, rigore e onestà intellettuale.
Oggi nel settore abbondano figure che, con toni altisonanti, vendono come scoperte epocali ciò che è stato inventato mezzo secolo fa. La psicologia seria non ha bisogno di maquillage: ha bisogno di memoria e verità. Mentre i clown abbondano.