Sinner non è una favola: vincere è un’altra cosa! Lo sapevi?

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«Alla fine la domanda è semplice: dopo aver letto queste righe, riuscirete a distinguere la favola dell’eroismo, dalla realtà concreta dello sport con tutte le sue variabili — anche quelle più dure e, a volte, ciniche?»
Sinner, la sconfitta e la cultura italiana del mito

In Italia funziona così: lunghi deserti sportivi, poi all’improvviso l’esplosione di un talento straordinario. E lì scatta la deificazione. È successo tante volte, succede oggi con Jannik Sinner. Fa parte della nostra cultura provinciale: dal silenzio al mito, dall’indifferenza alla celebrazione assoluta.

Il fenomeno Sinner ha basi solide: 62 settimane da numero uno del mondo, quattro Slam, una precocità che lo ha collocato stabilmente nell’élite. Attorno a lui si costruisce una storia perfetta: la famiglia semplice, i sacrifici, il ragazzo di montagna che si fa uomo nel tennis globale. Narrazione impeccabile, che piace ai media e che rifornisce l’immaginario nazionale affamato di eroi.

La macchina dietro il ragazzo

Eppure, accanto alla favola c’è la macchina. È qui che la percezione collettiva si inganna di più. Perché la narrazione del “bravo ragazzo umile, che lavora sodo e ringrazia la famiglia” cozza con una realtà molto diversa: quella di un’organizzazione che opera con lucidità chirurgica.

Nel giro di pochi mesi lo staff di Sinner ha preso decisioni durissime: la vicenda del Clostebol, il licenziamento improvviso di preparatori atletici, i cambi repentini di figure chiave. Nulla di illegittimo, anzi: è esattamente ciò che serve per restare al vertice. Ma questa freddezza stride con l’immagine rassicurante che i media amano vendere.

La psicologia delle organizzazioni spiega bene questa dinamica. Jim Collins, studiando le aziende eccellenti, parlava di “disciplina ferrea”: rigore nelle scelte, rifiuto del compromesso, sostituzione immediata di chi non regge gli standard. Non è cattiveria, è logica sistemica. Un approccio che appare cinico solo a chi si lascia incantare dal racconto romantico. In realtà è il prezzo inevitabile della competizione al massimo livello, dove la sopravvivenza non dipende dalla bontà della storia, ma dall’efficienza della macchina.

Questo lato della vicenda sfugge a molti, forse inconsapevolmente. È più rassicurante credere al “figlio modello che ce l’ha fatta” che accettare l’esistenza di un team che lavora con freddezza, determinazione e spietata lucidità. Ma il fenomeno Sinner non si spiega senza considerare entrambi i poli: la favola popolare e la macchina ad alta precisione che lo sostiene.

Il dualismo con Alcaraz

Il tennis è sempre un gioco di dualismi o piu’ . Oggi il dualismo si chiama Sinner-Alcaraz. Due caratteri e due giochi che riflettono le rispettive personalità:

l’italiano solido, ripetitivo, potente, un po’ rigido; lo spagnolo creativo, esplosivo, capace di variare.

Qui entra in gioco quello che Mihály Csikszentmihalyi definirebbe il flow differenziale: la capacità non solo di entrare nello stato di massima prestazione, ma di saperlo modulare con creatività, adattando le soluzioni al contesto. Alcaraz, al momento, pare mostrare una plasticità superiore.

Comfort zone e crescita

La questione vera riguarda la comfort zone. Tutti gli esseri umani, come dimostrano gli studi di Kahneman e Tversky sui bias cognitivi, tendono a ripetere schemi che percepiscono come sicuri ed efficaci. Sinner non fa eccezione: si muove nei confini del suo gioco naturale. Ma essere numero uno significa anche rischiare.

Carol Dweck parlerebbe di growth mindset: la disponibilità a uscire dal repertorio abituale per sperimentare soluzioni nuove, anche al costo di fallire più spesso. Sinner stesso lo ha detto: “bisogna accettare di perdere qualche partita in più”. È la stessa logica che Anders Ericsson ha definito deliberate practice: la pratica intenzionale che rompe l’automatismo, richiede concentrazione e porta, dopo una fase di instabilità, a un miglioramento reale.

La pressione invisibile

C’è poi il peso psicologico dell’essere numero uno. Non basta la freddezza caratteriale. La psicologia della performance insegna che il vertice porta con sé un “carico simbolico” enorme: ogni partita diventa un test di conferma del proprio status. Martin Seligman parlerebbe di resilienza appresa: la capacità di reggere al fatto che non sempre il risultato conferma l’identità di “vincente”.

Cosa significa perdere

Oggi vediamo Sinner perdere un gradino. Ma prima di questa piccola discesa c’è stata un’ascesa impressionante. E anche se domani sarà numero due o tre, resterà comunque tra i pochissimi che hanno la forza di giocarsi il trono del tennis mondiale.

La lezione è duplice:

la narrazione italiana del campione come eroe epico è culturalmente affascinante, ma spesso superficiale; la realtà della performance è fatta di cicli, comfort zone da superare, rischio volontario, capacità di accettare la perdita come parte del processo.

La scienza psicologica lo conferma: nessuno diventa davvero “altro da sé”, ma tutti possiamo — atleta o non atleta — imparare a muoverci con consapevolezza oltre i confini abituali. È lì che si gioca la partita più importante.

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