“Dalla fatica alla libertà interiore: correre secondo Haruki Murakami”

Io non sono umano. Sono una macchina.

Haruki Murakami, correndo una ultramaratona di 100 chilometri, ripeteva a sé stesso un mantra estremo: “Io non sono umano. Sono una macchina. Non ho bisogno di provare emozioni. Devo solo andare avanti.”

Questa frase non è soltanto un artificio letterario, ma rappresenta un meccanismo psicologico tipico di chi affronta condizioni estreme. Nell’ambito della psicologia della prestazione, sappiamo che il talento non basta: ciò che fa la differenza è la capacità di concentrazione, la gestione delle emozioni e la resistenza mentale.


Dissociazione e meccanismi di sopravvivenza mentale

Quando l’atleta supera una certa soglia di fatica, il cervello cerca scorciatoie cognitive per proteggere l’organismo. Una di queste è la dissociazione: spostare il focus dall’esperienza soggettiva (“sto soffrendo”) a un’immagine astratta o esterna (“sono una macchina che procede”).

Questo permette di ridurre l’impatto emotivo del dolore, creando una sorta di anestesia psicologica temporanea. È un meccanismo potente, ma anche rischioso: il corpo continua a segnalare i propri limiti, e ignorarli completamente può avere conseguenze. Tuttavia, per chi si muove nello spazio della prestazione estrema, questa capacità di modulare la percezione diventa essenziale.


Il talento non basta

Murakami lo sottolinea con semplicità: senza concentrazione e resistenza mentale il talento da solo non regge. Ogni atleta d’élite lo sa bene: il margine decisivo tra chi arriva e chi crolla non sta solo nella preparazione fisica, ma nella mente che sa gestire la pressione, la fatica e l’imprevisto.

In questo senso, allenare la mente diventa parte integrante dell’allenare il corpo. Non c’è forza muscolare che tenga se manca la capacità di mantenere lucidità e direzione sotto stress.


Allenarsi al dolore

Il punto non è eliminare il dolore, ma cambiarne il significato. Nella pratica della psicologia della performance lavoriamo spesso su tre direzioni:

  • Tolleranza: imparare a convivere con il dolore senza percepirlo come un nemico.
  • Trasformazione: interpretare la fatica come segnale di crescita, un feedback positivo dell’allenamento.
  • Accettazione: riconoscere che il dolore è parte integrante dell’esperienza, senza opporre resistenza inutile.

Gli studi più recenti confermano che la resilienza mentale non è un talento innato, ma un’abilità che può essere allenata tanto quanto la forza muscolare. La differenza sta nell’approccio quotidiano alla fatica: chi riesce a normalizzarla, finisce per superare ciò che gli altri percepiscono come impossibile.


Il paradosso della macchina

Dire a sé stessi “sono una macchina” è, in fondo, un atto di libertà. Non significa disumanizzarsi, ma creare una distanza strategica per superare un limite. La vera sfida psicologica sta nel saper alternare questo stato “meccanico” con il recupero della propria umanità: emozioni, vulnerabilità, significato personale.

Perché la macchina ti porta avanti, ma è l’uomo che sceglie la direzione.


🔑 Conclusione: allenarsi alla performance estrema significa imparare a gestire questa doppia identità: diventare macchina quando serve, per poi tornare pienamente umani quando conta davvero.

Palloncino Interattivo
click
“Pain is inevitable. Suffering is optional.” Haruki Murakami – What I Talk About When I Talk About Running (2007)

Hey, ciao 👋 Piacere di conoscerti.

Iscriviti per ricevere aggiornamenti sulle nostre attività nella tua casella di posta.

ricorda di confermare la tua iscrizione dalla tua mail. Non inviamo spam!

Hey, ciao 👋 Piacere di conoscerti.

Iscriviti per ricevere aggiornamenti sulle nostre attività nella tua casella di posta.

ricorda di confermare la tua iscrizione dalla tua mail. Non inviamo spam!