L’Errore di Ignorare Metacognizione e Metaprogrammi
di Paolo Benini (TheCoach)

Nel corso della mia esperienza con atleti e tecnici, ho osservato troppe volte una dinamica ripetitiva: il messaggio trasmesso dall’allenatore non coincide con quello che l’atleta riceve. Non per colpa del linguaggio, ma per assenza di consapevolezza sui processi che regolano metacognizione e metaprogrammi. Questo scollamento è subdolo, ma centrale. Il dialogo tra tecnico e atleta, se non è sostenuto da una comprensione profonda del funzionamento mentale, rischia di fallire proprio là dove dovrebbe costruire: nella fiducia, nella motivazione, nella performance.
Metacognizione: la funzione ignorata
La metacognizione è la capacità di riflettere sui propri processi mentali: sapere cosa si sta pensando e perché lo si sta facendo. È la funzione che consente all’atleta di autorregolarsi, monitorare il proprio stato interno, correggere in autonomia l’errore. Quando manca, l’apprendimento diventa meccanico, e il miglioramento si inceppa.
A livello neurobiologico, la corteccia prefrontale dorsolaterale è la sede primaria della metacognizione. Se l’allenatore si limita a indicazioni direttive (“Fai così”, “Concentrati meglio”) senza attivare processi riflessivi, quell’area cerebrale resta silente. E con essa, si spegne il circuito dopaminergico che favorisce l’apprendimento per previsione dell’errore.
Senza dopamina – mediatore centrale della motivazione e del rinforzo – l’azione non viene registrata come significativa, e l’atleta smette di cercare soluzioni. Agisce, ma non apprende. Risponde, ma non evolve.
Quando richiamo esempi di strutture anatomiche o mediatori chimici, non lo faccio per amore della teoria, ma per mostrare quanto il linguaggio dell’allenatore abbia conseguenze precise sul cervello dell’atleta. Parlare in un modo o in un altro attiva o disattiva circuiti neurologici concreti: non si parla alla prestazione, si parla alla persona. E la persona risponde con il proprio cervello, non con una tabella.
Metaprogrammi: la grammatica profonda della mente
Nel mio lavoro li osservo sempre, anche se spesso chi mi ascolta li ignora: i metaprogrammi sono filtri inconsapevoli che definiscono il modo in cui le persone organizzano la realtà. Sono le mappe cognitive che decidono se l’atleta è spinto da un obiettivo o da una paura, se processa l’informazione partendo dal globale o dal dettaglio, se si motiva per avvicinamento o per evitamento.
E quando l’allenatore comunica senza conoscere questi filtri, produce dissonanza. Il messaggio “Devi vincere” può essere percepito come una minaccia da chi opera per evitamento, attivando l’amigdala e il circuito dello stress (con rilascio di cortisolo e inibizione della memoria procedurale). Non solo non motiva: danneggia.

Il risultato è una reazione di difesa, chiusura, disconnessione. L’atleta si sente forzato, non capito, spesso umiliato. Non per ciò che è stato detto, ma per come è stato recepito. La corteccia cingolata anteriore, deputata al rilevamento del conflitto, si attiva e disconnette il sistema ricompensa. Il linguaggio, invece di stimolare, genera cortocircuiti emotivi.
L’equilibrio neurochimico della comunicazione efficace
Una comunicazione efficace attiva in simultanea la dopamina (motivazione), la serotonina (stabilità emotiva) e la noradrenalina (prontezza attentiva). Ma per farlo, deve entrare nel circuito profondo del cervello dell’atleta, non solo nelle sue orecchie. Serve che l’allenatore sia un facilitatore metacognitivo, non solo un trasmettitore di istruzioni.
Nel mio testo Performance ho scritto chiaramente: «La nostra mente costituisce l’opportunità e il limite del nostro agire». E lo ribadisco qui: un allenatore inconsapevole delle dinamiche metacognitive non allena, condiziona. Non costruisce, dirige. Non stimola, comanda.
Educare l’autonomia, non gestire l’obbedienza
Nel contesto sportivo – che è laboratorio esistenziale e specchio amplificato della vita – il dialogo tra tecnico e atleta è il terreno più fertile per seminare consapevolezza. Ma se in quel dialogo mancano i riferimenti alla struttura interna del pensiero, si resta in superficie. L’atleta risponde, ma non si trasforma. L’allenatore parla, ma non entra.
Ecco perché serve introdurre sistematicamente metacognizione e metaprogrammi nella formazione dei tecnici. Per trasformare ogni scambio in una leva evolutiva. Perché l’atleta, se ascoltato secondo il suo funzionamento profondo, diventa protagonista del proprio cambiamento. E smette di “eseguire” per iniziare a scegliere.
Talk per Allenatori: Comprendere e Agire sui Metaprogrammi e la Metacognizione
Metaprogrammi più frequenti negli atleti (e come intercettarli)
- Avvicinamento vs. Allontanamento
Alcuni atleti si motivano per raggiungere un obiettivo (es. “Voglio vincere”), altri per evitare un fallimento (es. “Non voglio deludere”). - Globale vs. Specifico
Il globale ha bisogno di visione complessiva, il specifico di dettagli operativi. - Interno vs. Esterno
Chi ha riferimento interno si fida del proprio sentire; chi è esterno ha bisogno di validazione continua.
Feedback metacognitivi da dare all’atleta
- “Cosa ti ha distratto in quel momento?”
- “Che sensazioni hai notato prima di quell’errore?”
- “Qual è stato il pensiero che ti ha aiutato a riprenderti?”
- “Se dovessi dare un consiglio a un altro atleta su questo esercizio, cosa diresti?”
Questi stimoli non correggono, ma attivano il pensiero dell’atleta sul proprio pensiero. Qui nasce l’autonomia.
Strumento operativo – Questionario esplorativo (per allenatori)
Da usare nei primi incontri con l’atleta, per esplorare il suo funzionamento mentale:
- Quando ti senti davvero motivato in gara?
a) Quando vuoi vincere.
b) Quando vuoi evitare di perdere. - Cosa ti aiuta di più prima di una prestazione?
a) Sapere il piano tecnico dettagliato.
b) Avere chiaro lo scopo generale della giornata. - Quando sai di aver fatto bene?
a) Lo sento dentro di me.
b) Me lo devono dire. - Quando ricevi un errore tecnico, cosa preferisci?
a) Capire cosa fare subito.
b) Capire cosa è successo e perché. - Dopo una sconfitta, cosa ti rimane più forte?
a) La voglia di rifarti.
b) Il dispiacere per non esserci riuscito.
Ovviamente è solo un esempio e ci sono molte altre modalità da indagare. Per qualche info potete contattarmi dal sito.
Compilare questo strumento non serve per etichettare, ma per orientare la comunicazione e personalizzare la relazione. Perché ogni atleta è una mente irripetibile, e ogni mente risponde a linguaggi diversi.