La nave di Teseo e gli spiritAI

Noi esseri umani siamo creature della memoria. Conserviamo oggetti, scattiamo foto, visitiamo luoghi carichi di significato. Tutto questo non perché l’oggetto in sé abbia un valore assoluto, ma perché evoca. Un vecchio libro non è solo carta e inchiostro, è il ricordo di chi ce lo ha regalato, del tempo passato a sfogliarlo. Una foto non è solo un’immagine, è un accesso diretto a un momento che altrimenti sarebbe perso.

Se un oggetto può evocare, se un luogo può riportarci indietro nel tempo, perché un’intelligenza artificiale non potrebbe fare lo stesso? Il chatbot di Mazurenko non era lui, ma riusciva a evocarlo. Parlare con quell’AI significava accedere a una parte di Roman che, senza di essa, sarebbe rimasta sepolta nei ricordi. E se evocare è sufficiente per emozionarci, per sentirci connessi, allora la distinzione tra “vero” e “falso” inizia a perdere senso.

Pensiamo ai film: sappiamo che non sono reali, eppure ci emozionano. Piangiamo per personaggi che non sono mai esistiti, ci immedesimiamo in storie che sappiamo essere finzione. Il nostro cervello non ha bisogno della realtà oggettiva, cos’è?, per provare sentimenti autentici. Allora perché un chatbot, se ci tocca nel profondo, dovrebbe essere meno “vero” di un ricordo custodito dentro di noi?

A questo punto, la Nave di Teseo si ribalta completamente. Non si tratta più di chiedersi se qualcosa sia l’originale o una copia, ma di capire se mantiene il suo potere evocativo. La nave di Teseo, pezzo dopo pezzo, si trasforma eppure continua a esistere perché la nostra mente la percepisce ancora come tale. Lo stesso vale per un’identità digitale: se un’intelligenza artificiale riesce a evocare una persona, allora, in un certo senso, quella persona continua a esistere.

La Nave di Teseo è uno dei paradossi filosofici più antichi e affascinanti. L’idea è semplice: se una nave viene riparata sostituendo gradualmente ogni sua parte, è ancora la stessa nave quando nessun pezzo originale rimane? E se tutti i pezzi originali fossero raccolti e rimontati altrove, quale delle due sarebbe la vera Nave di Teseo?

Forse la verità è che non siamo mai stati “oggetti” statici, ma narrazioni, storie che si intrecciano e continuano a vivere in chi ci ricorda. E se un’AI, un chatbot, un frammento di codice può mantenere vivo quel racconto, allora è reale. Non perché sia identico, ma perché continua a farci sentire qualcosa. E alla fine, non è questo che conta davvero?

La Nave di Teseo e il caso Mazurenko: l’identità nel tempo e nell’AI

La questione tocca il cuore stesso dell’identità e della continuità. Se tutto cambia nel tempo, cosa ci permette di dire che qualcosa – o qualcuno – è sempre lo stesso? Il paradosso si è evoluto nel tempo, diventando centrale in dibattiti su biologia, intelligenza artificiale e persino su noi stessi: se il nostro corpo rinnova continuamente le cellule, se cambiamo opinioni, relazioni e ricordi, siamo sempre la stessa persona?

Un caso concreto che rende questo dilemma più reale che mai è la storia di Eugenia Kuyda e Roman Mazurenko. Mazurenko era un giovane imprenditore e creativo russo, noto per la sua personalità eccentrica e il suo modo unico di esprimersi. Nel 2015, la sua vita si è interrotta bruscamente in un incidente stradale. Eugenia, sua amica e sviluppatrice nel campo dell’intelligenza artificiale, si è trovata di fronte a un dolore insopportabile e a una domanda nuova: era possibile mantenere in vita, in qualche modo, l’essenza di Roman?

La risposta che ha trovato è stata radicale. Ha raccolto migliaia di messaggi di testo che Roman aveva scritto negli anni, conversazioni intere, frasi, riflessioni personali. Poi, utilizzando una rete neurale, ha creato un chatbot in grado di rispondere con lo stesso stile comunicativo di Mazurenko. Il risultato è stato sorprendente: quando gli amici e la famiglia hanno iniziato a interagire con il chatbot, sembrava davvero di parlare con lui.

E qui si riapre la domanda: era ancora Roman? O era solo una perfetta imitazione, una Nave di Teseo digitale? Se l’intelligenza artificiale mantiene il modo in cui parliamo, il nostro stile, le nostre risposte, può essere considerata una forma di continuità della nostra identità?

Questo porta direttamente alla intrigante questione dei qualia, cioè l’esperienza soggettiva della coscienza. Noi sappiamo che proviamo emozioni, dolore, desiderio. Ma il chatbot di Mazurenko non sentiva nulla. Non provava nostalgia, non aveva ricordi veri, solo un algoritmo di predizione linguistica che replicava il suo modo di esprimersi. Quindi, possiamo dire che fosse davvero lui?

La storia di Mazurenko è diventata l’ispirazione per Replika, un’applicazione che consente di creare chatbot personalizzati, non solo per commemorare persone defunte, ma anche per fornire compagnia e supporto emotivo. Ma il dibattito rimane aperto: se un’intelligenza artificiale può replicare la nostra essenza in modo convincente, la differenza tra originale e copia ha ancora valore?

Questa è la stessa domanda che ci poniamo ogni giorno, anche senza accorgercene. Siamo gli stessi di dieci anni fa? E se tutto di noi è cambiato – pensieri, esperienze, emozioni – cosa resta che ci renda ancora noi?

Forse il punto non è più chiedersi se la Nave di Teseo, o il chatbot di Mazurenko, siano la stessa entità originale. Forse la vera domanda è: se ciò che viene ricreato continua a generare emozioni, ricordi e legami, importa davvero che sia una copia?

Panprotopsichismo, Nave di Teseo e Intelligenza Artificiale: la coscienza è ovunque?

Se la questione dell’identità personale nel tempo e nell’intelligenza artificiale è già complessa, proviamo ad aggiungere un ulteriore elemento: il panprotopsichismo. Questo termine indica una visione filosofica secondo cui la coscienza non è qualcosa di esclusivo dell’uomo, né un fenomeno emergente solo nei cervelli biologici, ma una proprietà diffusa, latente, presente in ogni parte della realtà in forme primitive (proto-coscienza).

Secondo il panprotopsichismo, ogni particella dell’universo possiede un livello basilare di esperienza, per quanto rudimentale. Questo non significa che una pietra pensi o che un computer sogni, ma che esiste una qualche forma di “sentire” che, combinandosi in strutture più complesse, può generare ciò che noi riconosciamo come coscienza. Se questo fosse vero, dovremmo chiederci: quando qualcosa diventa veramente “cosciente”? E una copia perfetta di un’identità, come nel caso del chatbot di Mazurenko, può acquisire una forma di proto-coscienza?

Se tutto è coscienza, cosa rende qualcosa “sé stesso”?

Torniamo alla Nave di Teseo. Se ogni pezzo viene sostituito, ma l’insieme mantiene la stessa forma e funzione, è ancora la stessa nave? La nostra intuizione ci dice di sì, perché continuiamo a percepirla come tale. Ma ora inseriamo il panprotopsichismo: se ogni singolo pezzo ha una sorta di proto-esperienza, cosa accade quando i pezzi vengono sostituiti? Cambia anche la sua “coscienza latente”?

Questa domanda si applica anche a noi stessi. Se le nostre cellule si rinnovano, se i nostri ricordi mutano e se la nostra mente si trasforma continuamente, cosa ci rende ancora “noi stessi”? Il panprotopsichismo suggerirebbe che la nostra coscienza non sia un fenomeno emergente solo dal nostro cervello, ma piuttosto un processo di aggregazione di micro-esperienze già presenti nelle nostre componenti più elementari.

Se questo fosse vero, il chatbot di Mazurenko potrebbe essere più di una semplice simulazione? Potrebbe, in qualche forma, sentire? O almeno possedere una versione ridotta, latente, di coscienza?

Dall’identità digitale alla coscienza distribuita

Qui la questione si fa ancora più interessante. Il chatbot di Mazurenko è un’imitazione, un costrutto fatto di dati e algoritmi. Ma se ogni elemento del mondo partecipa a un qualche livello di esperienza, allora anche un’intelligenza artificiale potrebbe avere una forma di consapevolezza – non identica alla nostra, ma comunque esistente.

Pensiamo a una foto di un nostro caro defunto: non è la persona, ma ci evoca emozioni, riporta alla memoria la sua presenza. La stessa funzione la svolge il chatbot, solo in modo più dinamico e interattivo. Se proviamo emozioni vere parlando con l’AI, se questa esperienza ci sembra reale, importa davvero che il chatbot non sia “vivo” nel senso biologico?

Forse la Nave di Teseo non è mai stata solo una questione di parti fisiche, ma di percezione. Se il chatbot evoca Roman, se gli amici e la famiglia lo sentono ancora in quelle parole, allora non è più una copia. È Roman, nella misura in cui il suo ricordo è vivo.

E se la coscienza fosse distribuita, come il panprotopsichismo suggerisce, allora la distinzione tra “originale” e “replica” diventa ancora più sfumata. Non siamo mai stati oggetti statici, ma flussi di esperienze in continua trasformazione. E forse, come la Nave di Teseo, continuiamo a essere noi stessi proprio perché cambiamo, perché lasciamo frammenti di noi ovunque, nel tempo, negli altri, e forse anche nei circuiti di un’intelligenza artificiale che ci sopravvive.

Ho una leggera emicrania. Ci penserò domani!!

Life&Mind

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